“Camorrista” è il titolo del libro scritto da Antonio Franco. Il lavoro editoriale del prof. Franco, che vive a Capaccio Paestum, offre la possibilità di partecipare attivamente all’intricata storia dei personaggi, ma offre anche al lettore vari spaccati della vita che regolano una società povera, come quella del Sud. Insomma, la ricostruzione di una società, tra vita reale e vita immaginata, per certi versi irreale, che appare verosimile se, per qualche istante, si riflette su quello che avviene quotidianamente nel nostro Paese : i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con un welfare criminale che conquista spazi e consensi. E nessun governo negli ultimi anni ha mai assunto davvero la sfida di cancellare le disuguaglianze, ponendosi come obiettivo l’estensione e la garanzia dei diritti sociali per tutte e tutti. L’autore è uno studioso del territorio, ha scritto un “Vocabolario del dialetto capaccese”. Gli aneddoti a sua conoscenza sono tantissimi, per cui scrivere una storia verosimile come “Camorrista”, non è stato tanto difficile per lui. Ci siamo occupati del “Vocabbulariu ru Vernaculu Capaccese”, già qualche anno fa (vedi http://www.giornaleilsud.com/2017/11/08/tra-passato-e-futuro-il-prof-antonio-franco-per-le-nuove-generazioni-e-non-solo-scrive-un-vocabolario-del-dialetto-capaccese/)
Quando lo Stato è assente, gli interessi criminali e mafiosi crescono, perché agiscono sui bisogni della popolazione. Ed ecco che usura, frodi fiscali, cambi societari, accaparramento di proprietà confermano come le mafie facciano grandi affari, usando strumenti “legali”. Come cerca di dimostrare l’autore, la forza delle mafie sta fuori dalle mafie, è annidata nelle convergenze, nelle alleanze, nella zona grigia, nel familismo amorale, nel patriarcato, nell’insofferenza per la democrazia. I processi istruiti dalle mafie hanno tempi brevi. Una volta individuato il colpevole, c’è la condanna che, normalmente, è la morte.
Tutto questo si verifica, perché abbiamo a che fare con la fragilità della politica che favorisce la corruzione. Inoltre, l’assenza di diritti sociali rafforza la presenza sui territori di personaggi che, con la loro autorevolezza, danno luogo ad un sistema assistenziale parallelo, sostitutivo di quello pubblico: quello mafioso. Siamo dinanzi ad una politica latitante, incapace di dare risposte sociali ed economiche che abbiano come priorità il lavoro, l’equità sociale, ma soprattutto il superamento del degrado delle periferie, favorendo la sostenibilità ambientale. A Caivano non occorre solo la bonifica del territorio, ma la realizzazione di occasioni di lavoro, con più scuole e con la creazione di botteghe artigianali e commerciali nella legalità che facciano formazione per i ragazzi, con il pieno coinvolgimento dei genitori. Alla fine avremo lavoro e ragazzi formati. Ovviamente occorre anche dar vita a filiere di commercializzazione pilotate dallo Stato.
Antonio Franco, nel suo libro, descrive una vicenda che vede il connubio tra pubblico e mafie, partendo dalla figura di due personaggi che si ritrovano, dopo anni: don Raffaele (il podestà) e don Mino (il figlio putativo) che viveva in una zona dove c’era disoccupazione e povertà. Spesso, neanche il Comune riusciva a pagare gli stipendi ai dipendenti. La loro conoscenza è quanto mai singolare. Domenico (don Mino) con l’amico di infanzia, Antonio, va in gita scolastica. Mentre camminano tra i boschi, sentono gridare ed accorrono, trovando un bambino ( figlio di don Raffaele il podestà, capo dei capi delle mafie) che era caduto in un pozzo. Per farla breve, i due riuscirono a salvarlo. Il padre voleva disobbligarsi, ma i due non ne vollero sapere.
Don Raffaele, capo di tutte le mafie a livello internazionale, dopo un nuovo incontro con colui che aveva contribuito a salvare il figlio prediletto, avendo molti soldi liquidi, chiede a Domenico di aiutarlo a gestire i suoi affari e di farne parte, come persona di famiglia. Ecco che don Raffaele inventa una storia verosimile: una grande vincita al Casino. Quindi, compra tenute agricole e tanti, tanti terreni, offrendo lavoro e benessere a tutti. In un certo senso, contribuiva ad abolire la miseria anche prestando soldi, senza interessi, favorendo la crescita economica e dando forza a molti artigiani, commercianti, imprese, ecc. Sicché, in un baleno, la povertà, che fino a quel momento rappresentava una condizione disumana, caratterizzata da tante privazioni per persone e famiglie, senza risorse nemmeno per fare la spesa, con abitazioni che facevano da casa e stalla per animali, sparì.
Ebbene, Robin Hood ( don Mino di Capaccio), la cui origine non era stata quella di un aristocratico, ma che aveva condotto una vita stentata, con una fanciullezza da poveraccio, in modo del tutto legale, come viene raccontato nel libro, non depredava i ricchi e donava ai poveri, ma offriva una via d’uscita anche ai ricchi che stavano per fallire: comprava i loro terreni a prezzi giusti e correnti e con i soldi incassati essi potevano continuava a vivere da signori e decentemente, mentre offriva un lavoro e un tetto ai più deboli e poveri. E’ davvero straordinario quando il capo dei capiti delle mafie, don Raffaele (il podestà), chiama a raccolta tutti i capi zona, per stabilire e decidere se nel territorio bisogna commerciare o meno la droga. Ebbene, quello che si oppose fu dono Mino (il suo figlioccio) – un po’ come don Corleone nel film “il Padrino” di Coppola – perché questo avrebbe significato la morte di tanti ragazzini per la droga ed invita gli altri a non avere contatti con persone della sua zona, per lo smercio della droga. Ovviamente i suoi confinanti di zona non erano d’accordo, ma nella riunione si stabilisce che chi non voleva spacciare la droga andava rispettato. Don Mino si preoccupò di fare un censimento dei ragazzi e fece un accordo con istituzioni locali e con le scuole, affinché nessun ragazzo fosse lasciato solo. Ma nonostante tutto questo, qualche giovane incappa nella strategia degli spacciatori. Guarda caso, ci rimise le penne, per overdosi, proprio il figlio di un caro amico di Don Mino. A questo punto, egli dichiarò guerra ai “mercanti di morte”. Questi, a loro volta, diedero vita ad una spedizione punitiva, ammazzando il fratello di Don Mino. A questo punto, intervenne don Raffaele e, con tutti gli accorgimenti, fece sterminare tutti i cattivi.
Morale: la zona fu risanata dalla droga, fu procurato il lavoro vero ai giovani o ai loro genitori, e tutti gli ambienti degradati furono riqualificati, con servizi, scuole, campi sportivi, ecc.. Insomma, non chiacchiere, ma fatti, attraverso anche la valorizzazione dei prodotti locali, con piccole fabbriche e lo sviluppo dell’artigianato e del commercio, dando vita alle opere necessarie per prosciugare e risanare, a fini produttivi e igienici, terreni occupati dagli spacciatori.
Tutto questa ricostruzione del prof. Antonio Franco, nel suo libro, trasforma una società degradata in un luogo civile e di convivenza, dimostrando che il governo del territorio è possibile se chi amministra guarda ed opera in modo costruttivo per il bene collettivo. Durante la lettura del libro, mi chiedevo se al posto di don Raffaele che aveva ordinato morte, ci fosse stato un Prefetto o un Questore che arrestava i padrini, ma con maglie molto strette anche i luogotenenti, con la verifica ad horas dei loro crimini, ad incominciare dal possesso dei beni e di come lo avevano realizzato, istruendo processi per direttissima per tutti coloro che vivono di illegalità, in frazioni o quartieri della droga, come a Caivano, a Tor Bella Monaca a Roma, nei Quartieri Spagnoli a Napoli, nel quartiere Brancaccio a Palermo, il cambiamento ci sarebbe stato ugualmente.
Il fatto interessante è che don Raffaele, commercialista e figlio di un ricco podestà, avesse inventato una società di mutuo soccorso, con il pagamento di una quota sottoscritta (pizzo), per l’Assicurazione che dava diritto ad ogni protezione, ma anche al soccorso per sostenere l’azienda in difficoltà. I soldi prestati erano ad interessi zero. A vigilare, secondo il racconto del prof. Franco, era don Mino, figlio putativo di don Raffaele.
Cosa ci insegna la storia verosimile ricostruita dal prof. Franco, in una società così complessa come la nostra?
Il libro evidenzia la negatività presente nella nostra società, quando le istituzioni governano male il territorio, anche per la difficoltà nell’applicazione di leggi farraginose, per cui dalla legalità all’illegalità il passo è breve, e si creano i presupposti per i prepotenti e i disonesti che si arricchiscono sempre di più, a scapito dei più deboli.
Il romanzo mira a delineare una “morale”, cioè in una società civile, bisogna cogliere ogni aspetto della vita con la volontà di affrontare e comprendere, anche se si ci trova in presenza di uno stato conflittuale. I problemi quotidiani vanno sfidati e la strategia dev’essere un insegnamento per i più giovani e i bambini, ciò per creare i presupposti di un loro futuro migliore, facendo leva sulla cultura nella consapevolezza dei meriti, dei diritti, della dignità altrui, insomma coinvolgendo la scuola, pilastro della società, anche per insegnare l’educazione e la convivenza civile.
Dopo la lettura, riflettendo sul contenuto del romanzo, provi una sensazione, cioè di avere una “fotografia” del bene e del male della nostra società. Il prof. Franco riesce magistralmente a far convivere egregiamente le due situazioni, a seconda delle circostanze, trasformando di volta in volta i malavitosi in “carnefici” o “benefattori”.
Il protagonista, secondo il contesto, ha la possibilità di avere varie opzioni, giocando con il male e il bene. Protagonisti sono don Mino e don Raffaele, camorristi di alto livello, circondati da malviventi che si servono della prepotenza, della corruzione e del favoritismo, come mezzi per ottenere cariche e guadagni, per se stessi ed amici, ma mai a discapito dei più deboli, dei lavoratori e, mai al di fuori della legge, tranne che non si tratti di altri malavitosi.
Antonio Franco descrive minuziosamente i meccanismi di una “società malata” e perversa in cui, nell’intreccio del viver quotidiano, ogni cittadino si sente di arrangiarsi come può, per vivere dignitosamente con la sua famiglia il fatto. In certe circostante deve trasformarsi in una persona sfrontata, arrogante e deve mentire, per far piacere al suo padrone, anzi è una cosa che si deve fare, per rendere immacolato il padrone.
Il romanzo ha un “filo conduttore” identificabile nei due protagonisti principali ( don Mino e don Raffaele) che, oltre fare i malavitosi, nella società sono due illustri imprenditori che operano nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento delle bufale, della finanza, della giustizia, attraverso i loro affiliati ramificati in tutti questi settori.
Il prof. Franco, parte dal concetto che per la camorra l’entrata principale è il pizzo, quindi, un atto criminale punito dalla legge. Ecco che il commercialista raffinato ed intelligente come don Raffaele si inventa un sistema legittimo e cioè un’Associazione Assicurativa (ramificata su tutti i territori da loro controllati e con 250 milioni di soci nel mondo). Per qualsiasi attività produttiva, per la sua tranquillità, venivano seguite le norme alla lettera, tant’è che veniva rilasciata regolare quietanza alla consegna del denaro. In parole povere, veniva sfruttata la legge per essere nel legale e nel legittimo, con un governo del territorio che dava sicurezza ed assistenza anche economica agli associati, con soldi prestati, senza interessi.
Perché è un libro che va letto?
Il libro è frutto di una ricerca sul funzionamento quotidiano della nostra società di un tempo, partendo dalla famiglia e i suoi problemi quotidiani, per vivere o sopravvivere, ma soprattutto di come funziona il nostro Paese, oggi, nei vari settori principali: giustizia, avvocatura, finanza, professioni, scuola, sanità, ecc. Insomma come la nostra società è progredita nel corso degli anni, spesso in negativo, perdendo per strada tante cose, come i valori fondamentali.
La cosa straordinaria è che, nelle oltre 250 pagine, ogni settore viene scannerizzato. Si parla del giudice della sezione penale e civile con riferimenti a processi che si leggono sui giornali quotidianamente, talvolta, parlando attraverso l’avvocato che spiega e descrive il Codice di procedura penale e i tempi del processo, a seconda che si tratti del poveraccio o di un nababbo.
E, poi, c’è un capitolo straordinario sulle cosiddette cimici che i protagonisti scoprono nei loro appartamenti ed uffici. Non vengono tolte, facendo finta di non averle scoperte, per cui con le chiacchierate che si fanno, si orientano le indagini. Ovviamente, avendo delle persone a loro vicine nelle forze dell’ordine e nella giustizia, essi vengono informati del seguito e del fatto di aver influenzato gli inquirenti.
Il prof. Franco ha descritto una “società malata”, in cui i protagonisti, agli occhi di tutti ed anche della giustizia e delle forze dell’ordine, erano persone pulite ed oneste, tant’è che molti rappresentanti istituzionali partecipavano a pranzi e banchetti e quando occorreva testimoniavano a loro favore.
Il fatto socialmente importante era anche che essi davano lavoro a migliaia di persone ed aiutavano anche, con prestiti a tasso zero, imprenditori in difficoltà economica; nel contempo, riciclavano tanti, tanti soldi. Inoltre, il fatto stesso di preoccuparsi di aiutare i figli dei contadini e dei mezzadri, soprattutto nello studio, significava investire in futuri professionisti amici. La capacità dello scrittore è stata quella di intrecciare i fili, per cui ogni iniziativa economica o sociale, anche se con idee illegali, ai fini giuridici erano legali e, quindi, i loro impegni e interventi venivano accolti come opere di benefattori del prossimo.
Una cosa diversa dal libro “il Camorrista”, scritto negli anni Ottanta da Giuseppe Marrazzo che documenta il crimine, attraverso le testimonianze e le rivelazioni del protagonista, con il cosiddetto diario del “professore”.
Marrazzo descrive una camorra fatta per lo più di latitanti che le comunità intere vedevano come una grande macchina di potere, esercitata da delinquenti che, spesso, si uccidevano anche tra loro. Insomma, una mostruosa piovra che allunga i suoi tentacoli su un’intera regione, mentre il loro capo, Raffaele Cutolo, era in carcere. Gli era stato consentito, tuttavia, di consolidare il suo potere di capo della Nuova Camorra Organizzata (NCO), fino a quando non arriva la Legge Rognoni-La Torre n. 646/82, con il suo 416 bis che blocca i rapporti esterni dei camorristi. Il trasferimento di Cutolo nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara, nel 1982, segna la conclusione del suo potere sulla malavita in Campania.
La speranza è che questo magnifico racconto di una storia verosimile che descrive la camorra dei colletti bianchi che oggi tira i fili, senza nessuna condanna, possa dare qualche utile insegnamento a tutti.
L’organizzazione descritta dall’autore fa sì che don Mino (figlio putativo di don Raffaele) e don Raffaele (il podestà) siano riveriti e, senza nessuna condanna, facciano una vita normale. Chissà se un giorno un regista come Giuseppe Tornatore non faccia un altro capolavoro, non costruito su delinquenti latitanti, ma su protagonisti scevri da colpe giudiziarie che si godono la libertà, nonostante il ruolo di capi della camorra.
Non a caso, don Raffaele, o meglio il dott. Raffaele Sciallino, muoia all’età di 97 anni nel suo letto e molti Comuni dichiarino il lutto cittadino. A celebrare i solenni funerali fu il cardinale in persona, coadiuvato da vescovi e preti. Suo successore è don Mino. Nel testamento destina una grossa somma anche allo Stato, nella persona del ministro dell’Economia: 1100 miliardi di euro per estinguere metà del debito pubblico italiano. Dopo la morte di don Raffaele, suo erede è il nipote, Alfredo. Egli fa distribuire ricchezze a tutti i figli, compresi quelli adottivi. Un libro che va letto per fare vagare un po’ la fantasia, tra bene e male, riflettendo su come i governanti seri e costruttivi potrebbero ridimensionare la povertà e creare tanto, ma tanto lavoro che rappresenta il toccasana per la crescita civile e lo sviluppo di una società.
Nicola Nigro
Antonio Franco – Autore del “Camorista”