Abbiamo ricevuto dal giudice, dott. Michele Di Lieto, una riflessione sulla guerra di Gaza, che qui di seguito pubblichiamo.
Come sa chiunque abbia letto almeno uno dei miei libri “corsari” che analizzano “fatti e fattacci” (è il titolo di un volume) anno per anno della politica italiana, la raccolta analizza anno per anno fatti non solo politici registrati e commentati da chi scrive. Naturalmente non c’è tutto. Vi sono fatti che sfuggono a qualsiasi analisi vuoi perché il tempo li ha portati via, vuoi perché è passato (sempre il tempo) troppo in fretta, in modo da escludere qualsiasi analisi che non sia raffazzonata e poco obiettiva. E’ il caso del brano che voglio qui trascrivere. Risale ai primi tempi della Presidenza Trump, al febbraio di quest’anno, e registra tra i primi passi della nuova amministrazione USA la politica statunitense nei confronti di Israele e del suo Capo, B. Netanyahou. Mi è sembrato opportuno integrare il brano con un commento che, a distanza di pochi mesi, apre gli occhi a più d’uno. (Michele Di Lieto, settembre 2025)
Tra le misure annunciate da Donald Trump, nuovo Presidente degli Stati Uniti, a suscitare maggiori perplessità è quella che prevede l’occupazione e il controllo “a lungo termine” della Striscia da parte degli USA, previa evacuazione forzata (che vuol dire “deportazione”) dei palestinesi da Gaza e dalla Striscia intera, per impossessarsene e farne “la riviera del Medio Oriente”.
Si tratta di un piano per ora solo annunciato, che ha suscitato molte reazioni. L’unico ad esprimere parere favorevole è stato naturalmente il Capo degli israeliani, Beniamin Netanyahu (idea nuova, progetto buono: ha dichiarato). Tanto più che Donald Trump si assume l’onere della ricostruzione a Gaza, e ha negato ai palestinesi qualsiasi diritto su Gaza e sulla Striscia. Per il resto, la reazione è stata pressocchè unanime. Sottoposto a censure è stato non solo il Piano Gaza, ma anche il decreto che ha istituito dazi un po’ dovunque. Dalla Cina alla Germania alla Francia, dal Canada al Messico, è stato un coro di proteste, alle quali hanno fatto seguito misure di ritorsione annunciate o già attuate. “Reagiremo”, così si è espressa la Presidente della Commissione europea (il provvedimento Trump avrà affetto a partire dal 12 marzo prossimo), anche se non si vede come l’Unione europea possa reagire tutta in blocco, se singoli membri già seguono una politica autonoma che persegue interessi diversi per ciascun paese (vedi Francia e Germania), o sono contrari ad ogni mossa difensiva dell’Unione medesima (vedi Ungheria).
E l’Italia? Che fa l’Italia? La reazione è stata timida. Nessuno ha interesse a farsi nemici Trump e gli USA: forse si spera nella buona stella di Giorgia Meloni, che sembra godere delle simpatie del Presidente americano. La verità è che le misure adottate o preannunciate da Trump hanno scatenato una vera e propria guerra commerciale e tutte si inseriscono in una politica protezionistica, che è propria del Presidente americano. Come protezionistico è lo spoils sistem adottato da Trump in politica interna, in modo da sostituire qualsiasi voce contraria per circondarsi di funzionari e consiglieri tutti a lui fedeli.
Una analisi acuta (come sempre profonda e originale) sui rivolgimenti in corso è quella fatta da Fausto Bertinotti e riportata per estratto sulla Unità dell’8.2.2025. Fausto Bertinotti è una delle voci più interessanti del vecchio PCI, quello di Gramsci e Terracini. Vediamo che dice. Bertinotti parla di crisi della democrazia politica, di capitalismo tecnico finanziario (Trump e Musk) come nuovo protagonista della scena politica internazionale. Per Bertinotti il primo quarto di secolo ha segnato l’inizio (a partire dai primi anni duemila) e la fine (con l’elezione di Trump alla Casa Bianca) di una economia neoliberista con la sostituzione di un sistema di cui non si vedono bene i contorni, ma è sempre orientato a difesa del capitale, destinato a fare dei ricchi (compreso Musk) sempre più ricchi, dei poveri sempre più poveri. Su Gaza (ma in una intervista televisiva) Bertinotti è stato lapidario. La “ricolonizzazione” di Gaza? Ma questa è deportazione. Queste le parole di Bertinotti. E la sola parola “deportazione” fa tornare alla mente altre deportazioni di massa che tutti speravamo fossero definitivamente condannate e invece ritornano nei discorsi di chi è a Capo degli USA, della potenza mondiale sempre additata come rappresentane autentica della democrazia. Rilievo quest’ultimo che apre la via a un altro quesito al quale cercherò di rispondere brevemente anche perché sull’argomento si sono accaniti centinaia se non migliaia di esperti. E’ in crisi la democrazia, è democratico Donald Trump? Sono due le domande. Parto dalla prima.
La democrazia occidentale si basa su due elementi: il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali entrati a far parte delle singole Costituzioni; oltre alla rappresentanza attribuita al popolo attraverso le elezioni. Non esiste Costituzione che neghi diritti fondamentali, come il principio di eguaglianza o la libertà di espressione. E’ il secondo punto che lascia l’amaro in bocca. Se la rappresentanza è attribuita al popolo attraverso il voto, il popolo deve votare, quanto meno in una certa misura.
Se la misura viene superata, e porta l’astensione a limiti non più fisiologici, il popolo non può sentirsi rappresentato da chi, per esempio, non ottiene una maggioranza assoluta (che nel migliore dei casi equivale alla maggiorana più uno dei votanti. Così se i votanti sono 100, e la maggioranza è di 50, viene eletto il corpo elettorale che abbia ottenuto il 25% dei voti, la metà della metà, più uno). La conseguenza inevitabile è che gran parte dei cittadini, non sentendosi rappresentata, non va a votare, ingrossando la fila, già troppo nutrita, degli assenteisti: ne viene ridotta, e non di poco, la capacità di rappresentanza che costituisce il fondamento del voto popolare. Così non va. O si trova una soluzione (potrebbe essere un quorum per vincere le elezioni, od anche un ballottaggio tra i primi, ma altre se ne possono trovare).
Seconda domanda. E’ democratico Trump? E’ questo un quesito sul quale sono stati spesi fiumi di parole. C’è chi lo considera un fascista, chi un razzista, chi un tiranno, chi un dittatore. Non mi voglio imbarcare in un discorso che mi pare fondato su singoli atti del nuovo Presidente, mentre io ritengo che un giudizio debba essere espresso sulla base della attività complessiva di un Presidente, quale che sia. Non mi voglio neppure imbarcare nel giudizio negativo che, analizzando i due periodi storici, avvicinano la condotta degli americani culminata nella elezione di Trump a quella dei tanti che negli anni trenta del secolo scorso non mossero un dito contro le devianze nella politica dei Capi, Mussolini da un lato, Hitler dall’altro. Certamente alcuni atti, le prime mosse politiche del Presidente americano non possono non impensierire. Atti come la politica di annessione della striscia di Gaza, con l’evacuazione forzata di milioni di palestinesi, l’odio razziale predicato da Trump anche nel corso della campagna elettorale, la grazia immediatamente concessa ai suoi simpatizzanti per l’assalto a Capitol Hill nel gennaio 2023, non possono passare inosservati: essi depongono contro il Presidente americano, e nessuno vuole sminuirne la portata. Ma, ripeto, il giudizio sul nuovo Presidente non può che essere complessivo. Attendiamo fiduciosi tutti gli sviluppi di questa politica. Se i rivolgimenti accennati dovessero rimanere nei limiti (suggeriti da Musk) di una guerra politico finanziaria, nessuno avrebbe motivo per dolersi di certe misure adottate per porre un freno alla economia disastrata del suo Paese (largamente preannunciate nella campagna elettorale). Attendiamo, attendiamo speranzosi. (Michele Di Lieto, febbraio 2025)
Sono bastati pochi mesi (da marzo a settembre di quest’anno), perché le idee si chiarissero (a più d’uno). Per quanto riguarda Gaza e la Striscia di Gaza, Donald Trump vi si è immerso fino al collo. Non è stato mai un mistero che nella vertenza medio orientale, tra Israeliani e Palestinesi, gli USA stessero dalla parte dei primi, come non è un mistero che, eletto Presidente, Donald Trump ha confermato la linea, anticipata in campagna elettorale, di favore per Israele: sì che Beniamin Netanyahu è diventato una creatura nelle mani del Presidente eletto. La guerra, perché di guerra si tratta, è aperta su due fronti. Il primo riguarda la città stessa di Gaza, assediata dall’esercito israeliano, fino a morire di fame, piuttosto che d’armi da fuoco. Nessuno ha parlato: se lo avesse fatto, qualsiasi accordo, qualsiasi trattato, sarebbe diventato carta straccia. Non hanno parlato gli Stati, legati mani e piedi a Trump e agli USA, ha parlato la gente, centinaia di migliaia di persone scese in piazza in ogni parte del mondo per manifestare pro Palestina e contro Israele. Ma, con Trump alle spalle, non si vede come gli israeliani potessero rinunciare alla conquista di Gaza, che, anche simbolicamente, rappresenta il fiore all’occhiello delle opposte pretese. Si badi che dopo le ultime elezioni che avevano sancito il successo di Hamas, Capo dei palestinesi, Gaza era diventata sede del governo eletto, che ha emesso e continua ad emettere bollettini di guerra con le cifre dello sterminio. Terrificanti. Settantamila morti solo tra i palestinesi, una intera città (un milione di abitanti) evacuata, o fatta evacuare, comunque lasciata senza cibo, senz’acqua, senza soccorso. Donald Trump ha lasciato fare. Lettera morta sono rimaste le manifestazioni di piazza, gli appelli, gli interventi di organismi internazionali, a partire dall’ONU per finire alla UE, con Trump che stava lì a guardare (e a finanziare l’esercito israeliano), per quello che a molti è apparso, e ancora appare, un genocidio in atto. Trump ha lasciato fare. Per la guerra di Gaza, fatta dal cielo e da terra, Donald Trump ha lasciato fare. Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, ha fatto egli stesso, intimando ai palestinesi di evacuare le zone occupate, per cercare aiuto tra i paesi vicini, che fossero disposti ad ospitare i palestinesi evacuati, rendendo così manifesta, se ancora ce ne fosse bisogno, l’adesione degli USA al disegno israeliano, che non è quello della formula ormai desueta due popoli due Stati, ma quello, ben più ambizioso, di “liberare” il territorio da quello che è stato considerato per secoli territorio dei palestinesi, non degli israeliani. E così Donald Trump avrà risolto il problema: in tutto, non in parte. Occupata la città evacuata, o fatta evacuare, “liberata” tutta la regione con quella che appare (senza ricorrere a paragoni e confronti, che è meglio non fare) una vera e propria deportazione di massa, Donald Trump avrà le mani libere e gli USA diventeranno padroni assoluti dell’area. E qui basta. Basta con la guerra di Gaza. Che se queste previsioni dovessero avverarsi, avremo toccato con mano che cosa è, che cosa non è la giustizia di fato. Per quanto concerne il resto di politica estera attuata o solamente annunciata da Trump, è bene subito dire che quello che impressiona è la serie interminabile di viaggi, incontri, contatti messi in atto dal nuovo Presidente USA. Dove la politica sembra ogni giorno di più sfociare in uno show di arte mediatica. Dove l’esigenza di apparire, di farsi vedere, di farsi conoscere per quello che è, non per quello che sembra che sia, prevale su qualsiasi altra esigenza di ruolo. Prevale, anzi trionfa l’esigenza di spettacolarità, a caratterizzare le uscite di Trump (che, bisogna ricordare, ha avuto anche un passato di attore). E non c’è attore americano che non presti il fianco alla critica kolossal e non metta in risalto quello che di kolossal c’è nel suo teatro. Gli esempi potrebbero essere più d’uno. Ne faccio infatti due.
Il primo inaugura quella che è stata definita diplomazia “funeraria”, col viaggio a Roma per i funerali di papa Francesco, nel quale Donald Trump fece sfoggio della sua abilità nel mettere insieme sacro e profano, accoppiando alle esigenze del rito la disponibilità a sentire chiunque ne avesse bisogno (lui stesso avrebbe chiesto e ottenuto di restare solo con Zelensky, Capo ucraino, sicuramente per parlargli della guerra (l’altra guerra, quella russo ucraina).
Il secondo esempio è dato dall’incontro, qualche giorno fa, a Londra, coi reali inglesi. Dove tutto è stato studiato per coniugare sfarzo e tradizione, carrozza reale e picchetto di onore, per onorare il nuovo re, Donald Trump, padrone degli USA, padrone del mondo. Qui lo show è stato completo, kolossal, teatrale. E forse è quello che Trump voleva, dare vita a una mise en scene spettacolare, dove l’abbraccio con Carlo, re degli inglesi, ha segnato il passaggio tra il vecchio e il nuovo (nuovo per modo di dire, anche Trump è vicino agli ottanta), secondo un rito quasi sacrale, che lui solo può e sa interpretare. (Michele Di Lieto, settembre 2025)