“La casa sul poggio”: un insieme di Storia vera e storia falsa,
con uno spiccato protagonismo anche delle donne
di Italia Sangiovanni*
“La casa sul poggio” (L’ArgoLibro editore, pp. 291, euro 12) è l’ultimo libro di Michele Di Lieto, il magistrato scrittore che abbiamo seguito fin dagli esordi, da quando, nel 2001, apparve in libreria “Il Pretore soppresso”, da più parti definito un vero e proprio “caso” letterario, per l’età dell’autore, più di sessant’anni, per il contenuto del libro, una rievocazione quasi proustiana del tempo andato, e per lo stile, che non aveva niente di curiale, ma era semplice, accattivante, caratterizzato da fulgurazioni e scatti improvvisi. E però già “Il Pretore soppresso” era un insieme di storie vere e storie false, di figure reali e figure inventate, di personaggi veri e personaggi di fantasia: caratteristica questa che indusse taluno a parlare, per un libro essenzialmente autobiografico, di romanzo vero e proprio; caratteristica questa che avremmo poi ritrovato nelle opere successive, da “Il sigillo violato” a “Tsunami”, da “Gioco di opposti” a “Memorie”: libro, quest’ultimo, nel quale l’Autore stesso affrontava il problema, parlando di memoria vera e memoria falsa, e citando Benjamin Wilkorminsky e James Fray, autori di celebri autobiografie, divulgate in milioni di copie, poi rivelatesi false.
Anche “La casa sul poggio” è un insieme di Storia vera e storia falsa. Storia vera è quella che riflette la peste del 1656, la carestia del 1764, il colera del 1884, il terremoto del 1980. Storia vera è quella legata alla repubblica partenopea del 1799, al cosiddetto decennio francese, alle migrazioni di fine ottocento, agli anarchici italo-americani del New Jersey. Storia falsa è la storia di una casa, la casa sul poggio che dà il titolo al libro, e la storia di una famiglia, “di una famiglia senza stemma, nata e cresciuta sulla terra, una famiglia contadina”. La Storia vera abbraccia quattro secoli, quante sono le parti del libro, con una serie di storie inserite nella storia del secolo al quale appartengono: storie tutte collegate alla casa e alla famiglia oggetto del libro.
A una prima lettura, ma l’opera merita di essere riletta e approfondita, pare di poter dire che “La casa sul poggio” è un romanzo ‘storico’ vero e proprio. Un libro che mette insieme storia vera e storia falsa, mette a fronte figure e fatti inventati con figure e fatti realmente accaduti, si fonda su documenti autentici o falsi, guida il lettore nel percorso narrativo, non può non definirsi romanzo ‘storico’ nel senso classico del termine. L’Autore non ne sembra convinto. Nel libro stesso (avvertenza iniziale) e nell’intervista rilasciata a Francesco Sicilia e pubblicata nel blog della Casa editrice, parla più genericamente di libro metà saggio metà romanzo, affidando al critico, com’è giusto, il giudizio sulla natura del libro.
Certo, a voler sottilizzare, qualcosa c’è e qualcosa non c’è del romanzo ‘storico’ classico: ma questo dipende dal fatto che, nella letteratura moderna e post-moderna, è difficile anche stabilire che cosa s’intende per romanzo storico ‘classico’, perché ogni opera di narrativa diverge dall’altra, e ciascun autore ci mette qualcosa di suo. Così, per restare al romanzo ‘storico’, Tomasi di Lampedusa non è Alessandro Manzoni, Sebastiano Vassalli non è Carlo Alianello, Melania Mazzucco non è Dacia Maraini. Basta, a mio avviso, che un’opera presenti i caratteri essenziali del genere perché si possa parlare di romanzo ‘storico’: e “La casa sul poggio”, che ripercorre quattro secoli di storia, dal seicento ai giorni nostri, con un filo conduttore che è la storia di una casa, la storia di una famiglia, questi caratteri essenziali ce l’ha, a prescindere dal modo in cui la storia vera viene combinata con la storia falsa, a prescindere dal fatto che storia vera e storia falsa non si fermano lontano nel tempo, come nella gran parte dei romanzi ‘storici’, ma arriva al dopo terremoto dell’80, agli anni novanta del secolo scorso, e pertanto fin quasi ai giorni nostri.
Ma, a parte queste considerazioni che, ripeto, sono dettate dalla prima lettura, ad orientare il giudizio a favore del romanzo ‘storico’ ve n’è un’altra che a me pare decisiva. Parlo del tono ‘onnisciente’ col quale l’Autore spiega (“allora laudo, oggi lodo”), mette a confronto (“la piana di Pesto non era com’è oggi”), analizza (“a chi chiedesse il perché di questi poveri sempre più poveri, di questi ricchi sempre più ricchi”), emette giudizi (“fortuna per i geologi, la cui opera meritoria non è in discussione, in discussione essendo gli eccessi della normativa e gli eccessi di alcuni tra loro”), anticipa le soluzioni che conosce in anticipo (“con questi vizi di origine, si capisce come sarebbe andata a finire”), fa sfoggio delle sue competenze (“si sarebbe dovuti arrivare al secondo dopoguerra, agli antibiotici, al cloramfenicolo”), dialoga e sembra quasi divertirsi col lettore “attento”, “scrupoloso se non pedante”, “di memoria corta” e di “memoria lunga”: tono “onnisciente” che caratterizza il romanzo storico ‘classico’ e ne “La casa sul poggio” assurge a motivo di unità del racconto.
Romanzo ‘storico’, dunque, “La casa sul poggio”, che si caratterizza per la varietà dei temi (quattro secoli di storia sono quattro secoli di storia) e per la varietà dei toni, che vanno da quello più freddo e distaccato della storia vera a quello più caldo e partecipato della storia falsa, dal tono toccante e commovente della terza parte al tono ironico o sarcastico della quarta: il tutto tenuto insieme dalla mano sapiente dell’artista.
Romanzo ‘storico’, però, e questa è una novità, nel quale assume largo spazio l’universo femminile. “La casa sul poggio” è un romanzo ricco, assai ricco di figure femminili. Forse mai, nella sua produzione, Michele Di Lieto aveva prestato tanta attenzione alle figure femminili. E’ vero che Tsunami, il terzo libro, è la storia del cancro che colpisce Teresa, la donna amata dal protagonista, ed è Teresa con la sua malattia che diventa la vera protagonista. Ed è pur vero che Memorie, l’ultimo libro dell’autore, è tutto dedicato a Rosy, sposata a settant’anni di vita, ed è lei, non lui, il personaggio centrale del libro. Ma un libro così ricco di figure femminili, l’una diversa dall’altra, Michele Di Lieto non l’aveva mai scritto.
Trattandosi di un romanzo che tende a fondere storie vere e storie false, anche le donne del romanzo sono in parte vere, in parte false. Ma sono le donne false, le donne completamente inventate quelle che popolano il libro, e quelle in cui l’Autore dà il meglio di sé. Ho detto: popolano, perché sono tante, disseminate in ogni parte del libro, e ogni parte, in tutto sono quattro, ha la sua eroina.
Sarebbe fatica inutile, in un commento a caldo, e farebbe torto al lettore, analizzare una per una donne protagoniste e donne minori del libro. Dirò solo che un tratto le accomuna. Quello di precorrere i tempi. Precorre i tempi Tina, la prima donna, la storia si svolge nel seicento, che intervenga come parte in un contratto di “soccio”. Precorre i tempi Maria Luisa, la storia si svolge nel settecento, che, nell’opposizione dell’ambiente che la circonda, si adatta a una convivenza, fatto “inaudito, letteralmente inaudito a quei tempi”. Precorre i tempi Gena Bellizzi, la storia si svolge nell’ottocento, che, seguendo la dottrina di Ernestina Crivello, femminista ante litteram, diventa femminista anche lei. Precorre i tempi Amalia Formigli, la storia si svolge nel novecento, la prima donna che, in un paesino del Cilento, Spinazze, ma il nome è di fantasia, si presenti come candidata a sindaco, “una novità a Spinazze, non solo a Spinazze, ma in tutto il Cilento”. E precorrono i tempi tante figure minori, come quelle che, nella seconda parte, diventano “un asse portante nell’economia del casale” o, nella quarta, quelle che, andando a votare, per la prima volta si mettono in contrasto coi mariti, al punto tale da applaudire, “dalla finestra socchiusa della casa palazziata”, l’Amalia Formigli.
Un vero e proprio universo, al quale l’Autore dedica mezzo libro, quasi a segnare il progresso, l’evoluzione, l’emancipazione della donna attraverso i secoli, e, insieme, il riconoscimento del ruolo che, pur nascosto, le donne hanno sempre avuto nella storia della famiglia (“Volle parlarne a Tina. Che, per quanto donna del seicento, aveva pur sempre voce in capitolo”; “Gena aveva reagito. Non come una donna di allora, non come una italiana, per giunta cilentana”). Un vero e proprio universo, anche quello delle donne minori, come, per restare all’esempio, Henriette Beaufort, “modista o modella all’occorrenza” che “aveva il vezzo o il pregio di circolare mezza nuda”; o come Isabella Vanacore vedova del Mastro, “ottantenne diabetica insulino-dipendente”, “memoria storica della famiglia, per aver letto il compendio in due volumi del processo Ognissanti Vanacore ad uso dei laureandi in legge”, o come Marta Boschi, “laureata geologa”, “campionessa di tiro con l’arco”, “terza classificata al campionato di categoria”. Donne tutte coraggiose, ferme, decise, come sottolinea lo stesso Autore, che assumono un peso determinante nella storia della famiglia e nella struttura del libro.
Un libro fatto di storia e diritto, delitto e processo, natura e paesaggio, al quale però, e in questo sembra di tornare a Il Pretore soppresso, all’opera prima di Michele Di Lieto, non pare estranea una sorta di laudatio temporis acti,una rievocazione nostalgica dei tempi andati. Si veda con quanto amore l’Autore si soffermi su Nenna, protagonista della quarta parte, “contadina giovane e bella” che “era un piacere veder tornare di sera con la cesta sulla testa e avanzare per le vie del paese dritta, orgogliosa e anche un po’ spavalda come un bersagliere in parata”. Si veda con quanta cura l’Autore si soffermi sulla famiglia patriarcale: dai nonni ai più piccini, dalla serva fidata alla “figlia della serva ragazza madre con un figlio”, dalla vecchia zia non maritata all’anima del purgatorio, “un mendicante non più in grado di mendicare e prossimo a rendere l’anima a Dio”). Si veda con quanta partecipazione l’Autore rievochi figure e clima delle vecchie campagne elettorali (“ne fece le spese l’Amalia Formigli della quale il meno che dissero fu: puttana”). Si veda infine con quanta passione l’Autore recuperi persino il linguaggio dei tempi andati (“a fucagna nu tira”, “hoie e nna semmana”, “nun ce trase o cavuraro”, “o pateterno se ne scurdavo”).
E qui avrei finito, se non mi sentissi in dovere di spendere qualche parola anche sullo stile. Che non è più quello del Pretore soppresso, si è fatto più maturo, ma spesso lo richiama e molto gli somiglia: “Non era un bambino, ma una bambina. Nacque viva. La chiamarono Alba. Col senno del poi, avrebbero fatto meglio a chiamarla Nigra. Ebbe vita effimera”; “Vanacore Sesto disse: la colpa è mia, ma c’è la garanzia. Il costruttore, se non lui un altro, rifarà il solaio, dell’uno e dell’altro. C’è bisogno di una carta. No, basta la parola. E poi è una cosa che interessa quello di sotto e quello di sopra”. Uno stile del quale si è già detto tutto: conciso, essenziale, stringato, privo di orpelli, ridotto all’osso, fatto di una “scrittura nitida, puntuale, sorvegliata” (così da ultimo Fernando Iuliano). Uno stile che qui, per “La casa sul poggio”, preferirei definire per contrasto. Si veda come lo stesso fatto, lo stesso evento (le visite mediche a Ellis Island) siano descritte da Melania Mazzucca in “Vita”, il libro insignito del Premio Strega nel 2003, e da Michele Di Lieto ne “La casa sul poggio”. Melania Mazzucco vi spende più di una pagina (la prima del romanzo) zeppa di particolari (“i gioiellini penzolanti e l’inguine ancora liscio come una rosa”, “la cosa più segreta che tiene in mano”, “la carruba infreddolita che rialza la testa orgogliosamente man mano che lui avanza”, “il sesso e la mano che lo regge”); Michele Di Lieto condensa il tutto in espressioni in dialetto cilentano: “comme me facette mea matre”.
* docente di lettere nei Licei