“La casa sul poggio”, l’ultimo lavoro di Michele Di Lieto, giudice scrittore, è (vuol essere) la storia di una casa e di una famiglia
di: Anna Milite*
“La casa sul poggio”, l’ultimo lavoro di Michele Di Lieto, giudice scrittore, è (vuol essere) la storia di una casa e di una famiglia. Non di una casa ‘palazziata’, una casa ricca, ma di una casa colonica, una casa agricola. Non di una famiglia nobile, una famiglia insigne, ma di una famiglia “senza stemma, nata e cresciuta sulla terra, una famiglia contadina”. Di Michele Di Lieto e de “La casa sul poggio” non può pertanto dirsi quel che Gramsci diceva del Manzoni e dei Promessi Sposi: che non c’è medesimezza umana tra l’Autore, gli umili e gli oppressi. L’accostamento non sembri irriverente: perché “La casa sul poggio”, Argolibro editore, è un’opera che ripercorre quattro secoli di storia, fonde e confonde storia vera e storia falsa, affronta i temi storici più svariati, è un affresco storico-letterario coi suoi fatti e i suoi personaggi: sì che il raffronto sorge spontaneo col romanzo “storico” e con l’opera del Grande Lombardo. E, fosse o meno corretto quel che Gramsci diceva del Manzoni e dei Promessi Sposi, quel “sentire” e rappresentare il mondo dei potenti più di quanto non gli riesca con gli umili e gli oppressi, è certo che “La casa sul poggio” sfugge del tutto a un’accusa del genere, il romanzo di Michele Di Lieto essendo, per sua stessa ammissione, il romanzo dei “poveri cristi”.
“Poveri cristi” sono gli eroi della storia, quattro quante sono le parti del libro.
Povero cristo è Gesualdo, capostipite della famiglia Ognissanti, “barbiere con licenza di menar sanguette”, eroe della prima parte. Scappato da Napoli con moglie e figli per sfuggire alla peste, la storia si svolge nel seicento, sbattuto da un naufragio sulla costa di Pesto, trova rifugio a Cicerale, terra quae cicera alit, e lì si trasforma da salassatore in allevatore di capre. Colpito nei suoi affetti dalla peste arrivata frattanto anche a Cicerale, vi perde due figli: e “quel che non aveva potuto il naufragio poté la peste, la stessa dalla quale erano fuggiti”. Arrestato e torturato per un delitto mai commesso, soccombente in una causa che lo avrebbe fatto ricco, “mille e ottocento ducati rimasti nelle pieghe di un registro”, sperimenta sulla propria pelle che “non c’è giustizia per i poveri cristi”, si isola dal mondo e da Dio, muore di ipocondria.
Povero cristo è anche Tarsio Ognissanti, eroe della seconda parte, che pure conosce il suo momento di gloria. Massone, liberale dalle idee avanzate, protagonista della repubblica partenopea, costretto all’esilio dai Borboni, perde in Francia Maria Luisa, la compagna di vita. Tornato a Napoli nel regno conquistato da Napoleone, diventa parte attiva nel processo di riforme avviato da Giuseppe Bonaparte e proseguito da Gioacchino Murat. Tornati i Borboni sul trono, si rifiuta di collaborare con chi lo ha condannato a morte, lo ha costretto all’esilio, gli ha tolto l’amore di Maria Luisa. “Tarsio Ognissanti non era uomo di potere. Né uomo attaccato al danaro. Tornati i Borboni, fece vita appartata. Per qualche tempo tornò a fare l’avvocato. Poi riprese i contatti coi massoni, poi divenne carbonaro”… Partecipò sicuramente ai moti del ’20, qualcuno lo vuole ancora attivo nel ’28, nei moti del Cilento, qualcun altro sostiene di averlo visto in un covo di briganti. I registri di stato civile lo danno per morto nel ’30. Ma a Salerno. Nessuno è riuscito a spiegarsi perché sia morto a Salerno”. Certo è, aggiungo io, che muore come un cane, muore da povero cristo.
Anche Carlo Ognissanti, eroe della terza parte, fa una brutta fine. Mezzadro, contadino, sottoposto alle angherie di Basilio Vanacore, proprietario della terra concessa a mezzadria, costretto ad emigrare alla ricerca di un futuro migliore, va negli Stati Uniti, a Paterson, nel New Jersey. Paterson era la città della seta, ma era anche la città rifugio di una nutrita colonia di anarchici. Carlo viene attratto dalle teorie di Errico Malatesta, anarchico meridionale venuto a far proseliti negli Stati Uniti. Non solo Carlo, ma anche la moglie, Gena, che, superato il trauma dell’ingresso in fabbrica, se non diventa anarchica, vi è assai vicina. Per una serie di motivi, che tutti si riducono alle angherie dei Vanacore, l’opposta famiglia nella quale sembrano riassumersi tutti i mali della storia, Carlo è costretto a tornare da solo in Italia per cercare un avvocato. Si imbarca su una nave francese, che pratica uno sconto speciale per i visitatori della expo del ‘900, e si incontra con Gaetano Bresci, e altri anarchici apparentemente diretti in Francia per lo stesso motivo. Gaetano Bresci è l’anarchico che la sera del 29 luglio 1900 ammazza a Monza Umberto I°. Nelle indagini sul delitto rimane coinvolto anche Carlo Ognissanti. Il suo nome viene riportato su tutti i giornali; col suo nome viene pubblicato quello della “fidanzata”, una tale Henriette, conosciuta sulla nave, con la quale aveva soggiornato in Francia per due settimane. Carlo Ognissanti dimostrerà, proprio attraverso Henriette, la sua estraneità al regicidio, ma la cosa non gli verrà perdonata dalla moglie, Gena, che finirà per trattarlo da separato in casa. Carlo Ognissanti torna in Italia col figlio più piccino, lo manda alla Badia per studiare da avvocato, ma il figlio, chiamato alle armi, muore nel ‘17, vittima del fuoco ‘amico’. Carlo resta solo, e da solo muore nella terra natia, senza moglie e senza figli.
Ma il povero cristo più povero cristo, mi si perdoni il bisticcio, è Antonino, eroe della quarta e ultima parte del libro. Sbattuto, travolto, stritolato dalla macchina del potere, conosce i disagi e le peripezie di chi si avventura in un modesto progetto edilizio, il risanamento della casa sul poggio, che si trasforma in una vera via crucis. Dal direttore di cassa al geometra, dal geometra all’ingegnere, dall’ingegnere al geologo, dal geologo a quello dei sondaggi, e poi, daccapo, dalla Soprintendenza ai monumenti alla Soprintendenza al panorama, dalla Soprintendenza al panorama all’Ente Parco, dall’Ente Parco alla Autorità di bacino, dalla Autorità di bacino alla Commissione grandi rischi, dalla Commissione Grandi rischi alla Commissione frane. Per giungere ai controlli durante l’esecuzione dell’opera, dai tecnici del comune ai vigili urbani, dai carabinieri ai poliziotti in borghese, dai poliziotti in borghese ai militi della forestale, dagli Ispettori della Soprintendenza alla Commissione frane. Un percorso accidentato e perverso che, al solito, travolge solo i poveri cristi: perché gli altri, i ricchi, “costruivano senza intralci, e si vedevano case di un piano trasformarsi in palazzi”. Un percorso nel quale non è difficile scorgere una vera e propria denuncia del cinismo del potere, denuncia che appare in tutta la sua chiarezza nella quarta, ma non è assente nelle parti anteriori, come ad esempio, nella prima, quando si parla delle offerte alla Chiesa da parte della povera gente che, di fronte alla peste, pensa che tutto sia dovuto a un castigo di Dio, e si priva di tutto, anche di “pecore e capre allineate sul sagrato”, o, nella seconda, quando si parla delle indulgenze concesse dai Papi in occasione delle carestie, a chi fa digiuno per due giorni consecutivi.
Torniamo all’inizio, e al romanzo dei poveri cristi. Poveri cristi che, però, non sono dei vinti. Non sono i vinti del Verga. Gli eroi de “La casa sul poggio” combattono con tutte le loro forze contro la forza degli eventi, ma ne escono sempre soccombenti: sì che, alla fine, rimane un senso di amaro in bocca, perché tutto sembra rimanere come prima. I poveri sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi. E sono sempre i poveri a soccombere: perché a soccombere sono i poveri cristi. Conclusione amara alla quale l’Autore approda sulla base di un pessimismo di fondo, che affiora anche da altre sue opere: si può citare ad esempio il suo primo libro, la fine da suicidio del Pretore soppresso. Nell’intervista concessa al Sud, il giornale on line di Nicola Nigro, all’uscita di questo volume, l’Autore attribuisce questo suo pessimismo a un vizio di famiglia; e ricorda quel che scriveva il fratello morto, Giannino di Lieto, della nostra condizione, che è “l’olio per la croce//come un grido che si nutre di ingiustizia”. Ma è un pessimismo di fondo che trova riscontro in precedenti illustri, in tutti i grandi scrittori che si sono occupati di storia meridionale. A partire dal Verga (il “ciclo” dei vinti), a Tomasi di Lampedusa (“ se vogliamo che tutto cambi, nulla deve cambiare”) a Carlo Alianello e allo spirito che caratterizza la sua Eredità della Priora. Opere tutte che denunciano il fallimento della politica dello Stato unitario e riportano alla mente la irrisolta questione meridionale. Una questione sempre attuale, resa oggi più acuta dalla crisi economica che attanaglia il paese, e che vede sempre più accrescere il divario tra nord e sud d’Italia (il PIL che decresce in misura maggiore, le famiglie “povere” collocate sempre più nel meridione). Una crisi che costringe il meglio degli intellettuali, che dovrebbe essere la classe dirigente del domani, ad abbandonare il sud per recarsi al nord se non fuori d’Italia (fuga dei cervelli, migrazioni “intellettuali”).
Questo valore di attualità sembra a me uno dei pregi maggiori de La casa sul poggio, che certo non è priva di difetti (ma quale opera letteraria, che affronti temi così delicati, e percorra quattro secoli della storia d’Italia, non avrebbe difetti). Un difetto a me sembra quell’insistere su temi storici del passato (il latifondo, i grossi proprietari terrieri, i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri), o su temi più strettamente giuridici (il soccio, l’anticresi, l’ipoteca e il patto commissorio). Difetti che si spiegano con l’intento, neppure tanto nascosto, di dimostrare che nulla cambia, nulla è cambiato nel corso dei secoli, o si spiegano con la formazione culturale dell’Autore, che certamente non può mettere da parte la sua lunga vita di magistrato. Difetti che, però, rischiano di appesantire il discorso e rendere meno agevole la lettura. Se questo non avviene, si deve allo stile di Michele Di Lieto che, è stato già notato, ne La casa sul poggio è uno stile maturo. Uno stile semplice, accattivante, quasi ritmico, che non è copiato da alcuno. Uno stile che si fonda, sotto il profilo formale, della ripetizione della parola chiave e induce, quasi costringe il lettore a seguire la storia di periodo in periodo, di capitolo in capitolo, di parte in parte. Anche per scoprire che fine fanno gli eroi di questa famiglia, che fine fa la casa sul poggio, che fine fa la scritta: TO, AD MDCLXXI, Terzo Ognissanti, anno del Signore 1671, che resta lì, incisa sul portale, e assurge a simbolo della fissità della Storia, della fermezza dei tempi.
*docente nei Licei