Con la morte di Antonio Caporale, se n’è andato un pezzo di storia cilentana
Antonio Caporale non è più. Antonio Caporale era un volto buono, umano, laborioso e cristiano non solo del borgo di Camella, frazione di Perdifumo, ma del Cilento intero. Organista, cantore e sacrista della parrocchia di San Nazario, testimone discreto e puntuale delle vicende umane, ha seguito persone e avvenimenti che fanno la storia di una comunità ecclesiale, oltre che di una società civile. La sua, più che una professione, è stata da leggere come lo spartito o, meglio, la vocazione di un’intera vita. Come egli stesso evidenziava sostenendo che “non lo si fa come mestiere ma solo se dentro c’è una vocazione”. Vocazione che non può spiegarsi se non con la fede profonda che lo ha sempre sorretto, e gli ha fatto superare in silenzio le traversie della vita, a partire dalla perdita, a cinque anni, della prima figlia, Marianna, il primo ricordo che gli veniva in mente con chiunque lo avvicinasse e lo conoscesse anche da vecchio, a tanti anni di distanza dall’evento triste. Vocazione che gli ha permesso di vivere accanto ai preti della parrocchia, don Gerardo in primis, col quale ha condiviso eventi lieti ed eventi tristi, don Pasquale poi, anzi don Pasqualino, che ha passato nella sua casa gli anni dell’infanzia, ha avuto da lui i primi rudimenti di vita, e ha alla fine celebrato il rito, dicendo parole commosse e sentite che andavano al di là dell’omelia di circostanza. Vocazione che gli ha consentito di conciliare l’amore per la comunità con l’amore per la famiglia, la moglie e i figli, prima fra tutti Rosetta, che gli è stata accanto sin quasi all’ultimo respiro, e lo ha assistito amorevolmente sino alla fine. Tentando con ogni mezzo di rendergli meno malagevole il distacco. Non sarà male notare che l’insufficienza renale di cui è morto Antonio, e che sfocia anche nel filtrato glomerulare, se non ben curata potrebbe procurare dolori atroci e, quindi, tanta sofferenza, cosa che, per fortuna, ad Antonio è stata evitata da medici e paramedici che si sono alternati al suo capezzale. Vocazione che gli ha consentito di affrontare con dignità gli acciacchi dell’età, e di sottolineare, anche nei momenti più tristi, come «tanti bei ricordi aiutano ad essere tranquilli”, e come la vita trascorsa nella comunità di Camella gli avesse dato “molta gioia”, “tanto affetto e amore”. Con la morte di Antonio Caporale se n’è andato insomma un pezzo di storia cilentana, una storia d’altri tempi, una testimonianza dei più vecchi, un esempio per i giovani. Ciò detto, siamo vicini e rinnoviamo ancora la nostra solidarietà ai familiari, e pubblichiamo volentieri il testo che ci ha fatto pervenire Michele Di Lieto, genero di Antonio, scrittore, magistrato in pensione, e nostro fraterno amico.
La morte di un uomo*
di Michele Di Lieto*
<< La morte di un uomo, di qualsiasi uomo, è un evento che ti tocca nel profondo, perché la morte attiene al più grosso mistero della vita. La morte, l’idea della morte, si accompagna, spesso ma non sempre, consapevolmente o inconsapevolmente, al nostro modo di fare, al nostro modo di agire. Non a caso, l’idea della morte è stata alla base di quel che ho fatto io. L’idea della morte è stata alla base della mia attività di magistrato, perché strettamente legata a quel concetto di misericordia che mi ha sempre ispirato: ancor prima che papa Francesco ne facesse un cardine del suo apostolato. L’idea della morte è stata alla base della mia attività di letterato, perché strettamente legata alle storie di vita che ho narrato. E questo a partire dal Pretore soppresso, romanzo autobiografico, “un romanzo di ricordi, un romanzo di morti”. Per finire alla Casa sul poggio, romanzo più propriamente storico, un romanzo di eroi accomunati dalla morte nella bella o brutta fine.
Ciò detto della morte in generale, occorre subito dire che vi sono, almeno così le ho sentite, alcune morti che ti colpiscono in particolare. La morte del padre. Mio padre è morto nel 1979, a gennaio del 1979. Sono passati quasi quarant’anni, per me è come fosse ieri. Non occorre riprendere in mano il Pretore soppresso, il mio primo libro, per ricordare l’ultima visita del medico, il “grosso rigurgito in atrio sinistro”, il “discreto versamento pleurico”, “l’edema agli arti inferiori” che tanto spaventava mia madre. Non occorre riprendere in mano il Pretore soppresso per ricordare la notizia della morte (mi raggiunse mentre tenevo udienza in Pretura, era mia cognata al telefono, mi diceva di tornare: chiesi se c’era qualcosa da fare, la sentii singhiozzare). Ricordo i preparativi frettolosi per il viaggio: ricordo qualcuno rincorrermi per le scale, i fazzoletti, i fazzoletti bianchi, li avevo dimenticati; e ricordo il viaggio, due ore interminabili da Agropoli a Minori, e io mi sforzavo di convincere me stesso che non avevo capito, continuavo a sperare, e chi mi accompagnava muto non mi contrastava. Ricordo l’incontro col morto, e il contrasto tra il bianco pallore del volto e il nero delle donne assise accanto al letto: “rimasi di sasso, non lo toccai, era la prima morte che mi toccava”. Ricordo il corteo, “aveva un che di militare”, e la bara portata a spalla, così avevo voluto io, dalla casa in chiesa e dalla chiesa al cimitero, trecento scalini, con intere generazioni che accompagnarono il maestro all’ultima dimora. E ricordo le parole dette quella sera con mia madre: “Non era così vecchio, poteva campare ancora”. Piangemmo assieme.
Accanto alla morte del padre, viene subito alla mente la morte della madre. Mia madre è morta il 1998, nell’ottobre del 1998. Sono passati quasi vent’anni, per me è come fosse ieri. Con mia madre io ho condiviso gli ultimi dieci anni di vita. Da gennaio dell’89 ad ottobre del ’98. Tra una visita al Gemelli, una (falsa) epatite virale, una frattura al femore, più crisi di cuore ed altre complicanze che non dico. Ricordo l’ultima visita dello specialista. La notte della morte. Lo specialista le ha chiuso gli occhi quando è morta. Ricordo la cerimonia in chiesa, la predica, e il corteo, più semplice, meno ordinato e meno militare di quanto fosse stato per mio padre. A me parve meno bello. Ammesso e non concesso che un corteo di lutto possa dirsi bello. Fatto sta che non ci fu il bagno di folla che aveva seguito la morte di mio padre. Ed io mi sentii più solo, più sconsolato. Sensazione che si fece più acuta quando tornai in ufficio (ero di fatto presidente di sezione alla corte di appello locale) e nessuno riaprì il discorso, nessuno riaprì la ferita. Del resto, mia madre è morta a novantadue anni: e non si può avere di più dalla vita.
Ciò detto della morte di mio padre e di mia madre, debbo subito dire che fino a qualche giorno fa avrei giurato che un dolore così intenso non lo avrei più provato. Tanto più che altri lutti mi avevano colpito. Assai da vicino. Non è così. Qualche giorno fa è morto mio suocero. Si chiamava Antonio. A lui avevo già dedicato qualche pagina delle mie Memorie. A lui è ispirata qualche altra storia narrata nei miei libri. Bene: per la morte di Antonio non avrei mai pensato a un dolore così. Tanto più che Antonio aveva quand’è morto novant’anni finiti. Si vede che la sua morte l’ho vissuta non solo come la morte del padre di mia moglie, ma come qualcosa di più e di diverso. Vero è che io mi ero legato ad Antonio da profondo affetto. Vero è che gli volevo bene molto più di quanto apparisse.
Antonio era un uomo che, pur essendo vissuto nel mondo contadino, nulla aveva del contadino, perché il contadino non l’aveva mai fatto. E nulla aveva dell’artigiano, perché dal padre, calzolaio, aveva ereditato solo l’amore per le belle scarpe. Antonio era un uomo non privo di senso dell’arte. Organista e cantore ufficiale della bella chiesa di Camella, aveva accompagnato i riti di vita e di morte del piccolo centro dove era nato. E aveva iniziato alla musica e al canto intere generazioni del borgo natio. Antonio mi ha insegnato l’amore per la natura, l’amore per la campagna, l’amore per gli animali (il piccolo cane che gli faceva compagnia).
Antonio mi ha insegnato il senso della morte come parte integrante di vita. Nato negli anni venti, era l’ultimo grande vecchio della sua generazione. Ma dei suoi coetanei, dei suoi amici morti parlava come se fossero vivi. A ben guardare, sempre i vecchi parlano dei morti come se fossero vivi: lo faceva anche mio padre, lo faceva anche mia madre. Sarà perché da vecchi si rifiuta l’idea della morte, sarà una forma di autodifesa, sarà anche perché la morte viene considerata come evento naturale della vita. Tanto più quanto più si avvicina.
Antonio era un uomo semplice, ed io ho sempre avuto un debole per le persone semplici. Antonio era un buono, ed io penso di essere un buono. Antonio era un uomo di fede, e qui vengono in rilievo le differenze, perché io sono un inguaribile miscredente. Meno male che Antonio non si è accorto di niente. Il matrimonio con Rosa, sua figlia, è stato celebrato in chiesa, nella sua chiesa, e la cerimonia, celebrata da un uomo di colore, è stata quella che lui voleva che fosse. Al punto tale che si è convinto, e ha ripetuto sino alla fine, di avere lui cantato l’Ave Maria. Quell’Ave Maria che aveva suonato e cantato per chi sa quante altre coppie. Quell’Ave Maria che, fatto inconsueto per una cerimonia a lutto, lo ha accompagnato alla fine della messa come estremo omaggio e ultimo saluto.
Il prete è stato grande. Il prete (giovane, molto più giovane di Antonio), ha frequentato la casa di mio suocero da che era bambino. Il prete ha detto parole semplici e sentite. Ha rievocato le sue gioie, le sue traversie. Soprattutto, ha saputo legare le varie parti della cerimonia, in maniera tale che nulla gli è sfuggito, dall’inizio alla fine.
Ed è stata grande la gente, un mare di gente, che ha assistito commossa, in religioso silenzio ed estrema partecipazione. Un tributo di affetto, fors’anche di riconoscenza, quale mai avrei immaginato. Un tributo di affetto, fors’anche di riconoscenza, sorretto da un senso della comunità che altrove è difficile trovare.
Non nascondo che nella cerimonia, così come si è svolta, c’era qualcosa di mio. Il fatto, ad esempio, che la bara sia stata portata a spalla dalla casa in chiesa, come per mio padre (ma qui erano pochi passi, un centinaio di metri). Il fatto, ad esempio, che non ci sia stato spreco di fiori: solo un cuscino sulla bara, di orchidee e rose rosse. Il fatto, infine, che il rito fosse officiato dal prete che aveva conosciuto mio suocero dalla più tenera età e che, forse e senza forse, avrà da lui attinto quel poco o quel tanto di fede che lo ha portato al sacerdozio. Bravo anche al prete. Sono sicuro che Antonio, e Antonio sa quel che ci ho messo di mio, mi vorrà perdonare se, composta la salma nella bara, mi sono rifiutato di entrare nella camera addobbata a lutto. Mi era già capitato con mia madre. Come per mia madre, ho voluto legare il mio ricordo ad Antonio vivo, non ad Antonio morto.
Camella di Perdifumo, giugno 2016.
*Magistrato in pensione