Giudice Michele Di Lieto: Lo “scandalo” di Bologna sull’uxoricida, la giusta pena e il convincimento del giudice, dove inizia e dove finisce

Il giudice Michele Di Lieto, magistrato in pensione, è contrario al rilascio di interviste sulle sentenze (soprattutto su quelle rese da se stessi), ma soprattutto, il dott. di Lieto non vede che altro può aggiungere il magistrato che ha steso la sentenza che “anche il killer può fare pena”?
Secondo Di Lieto, si tratta di una confessione politicamente scorretta, ma che risponde alla verità, essendo anche il giudice un uomo. Non è facile accettare sconti di pena nel caso di delitto di uxoricida.


Per il dott. Di Lieto il giudice estensore ha avuto il coraggio di dirlo. Bravo al giudice. Bravo a Silvia Carpanini.

Il dott. Michele Di Lieto, giudice in pensione

Ha provocato scandalo fino ad occupare la prima pagina dei giornali la notizia che due giudici, a breve distanza l’uno dall’altro, a Bologna e a Genova, hanno concesso le attenuanti generiche per ridurre la pena già irrogata (o richiesta dal P.M.) a due mariti colpevoli di omicidio (aggravato) in danno della moglie separata (o della donna appena conosciuta dopo la separazione), dando rilievo a stati emotivi o passionali che non si riteneva potessero valere per le attenuanti generiche, dichiarate in entrambi i casi prevalenti sulle contestate aggravanti. E’ stato detto di tutto. Si è parlato (a sproposito: e dov’è il femminicidio?) di femminicidio, di delitto d’onore (che più non esiste). Sono volate parole di fuoco contro il giudice (donna) che aveva emesso la seconda sentenza. Hanno parlato tutti, competenti e incompetenti: e passi per i difensori di parte civile, che possono anche avere interesse a una sentenza più severa, ma ci si è messo anche il Capo del governo, Giuseppe Conte, che è un giurista, e come giurista avrebbe potuto consultare un repertorio qualsiasi prima di avventurarsi in commenti poco lusinghieri sui giudici e sulle pene irrogate. Perché Giuseppe Conte ha prima difeso la necessità che qualsiasi critica debba essere riservata ai tecnici del diritto (e resta in piedi il quesito se il Capo del governo si consideri o meno un tecnico del diritto), ha poi richiamato il principio della separazione dei poteri e dell’autonomia della magistratura (senza accorgersi che lo stesso intervento del Capo del governo valeva a scalfire il principio affermato), infine si è lasciato andare a commenti tipo: questa storia deve finire, nessuna reazione emotiva può attenuare la gravità di un femminicidio, pene irrisorie come quelle irrogate sono risibili, il problema (quale problema) è prima di tutto un problema culturale, tutte affermazioni che non si vede a chi potessero essere dirette se non al povero magistrato che ha concesso le attenuanti. Per la verità, il Capo del governo non era stato il solo membro dell’esecutivo a intervenire. Lo aveva preceduto il vice premier Matteo Salvini (“Chi ammazza in questo modo deve marcire in galera”), e gli avrebbe fatto seguito una parlamentare di destra, capogruppo di Forza Italia, Maria Stella Gelmini “Che schifo, ma la vita vale così poco?), assieme a tanti altri, parlamentari e non parlamentari. Tutta gente che non sa, o mostra di non sapere che dal 2013 la Suprema Corte ha stabilito che “gli stati emotivi e passionali, pur non escludendo o diminuendo l’imputabilità, possono comunque essere considerati dal giudice per la concessione delle attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale” (S.C. n. 7227 del 2013) e che tale principio è stato riaffermato con sentenze n. 27932 del 2016 e 5299 del 2018: sì che la concessione delle attenuanti generiche da ultimo accordate non ha carattere di novità, non è tale da giustificare le dichiarazioni di Giuseppe Conte tanto meno il clamore suscitato dai mass media, che sembrano rinfocolare un clima di restaurazione che pervade anche le istituzioni, e che avanza da destra, sia o meno rappresentata dalle forze di governo, (e qui mi vien fatto di ripetere con Luigi Di Maio: “tutta gente sfigata”). Vorrei qui ricordare, a quanti sotto sotto lamentano gli eccessivi poteri riconosciuti, anche in sede di graduazione di pena, al giudice che condanna (nel caso concreto la pena è stata ridotta dai trent’anni chiesti dal Pubblico Ministero ai sedici irrogati dal magistrato: ma il Pubblico Ministero non aveva chiesto attenuanti, tanto meno prevalenti sulle contestate aggravanti); vorrei ricordare che resta affidato al giudice il potere-dovere di irrogare la pena secondo i criteri dettati dall’art. 133 c.p. che gli fanno obbligo (“deve tener conto”) di valutare, tra l’altro, l’intensità del dolo, i motivi a delinquere, la condotta contemporanea e successiva al reato. Vorrei anche ricordare che, a norma degli artt. 62 e 62 bis c.p., e sempre ai fini della pena, il giudice deve tener conto delle attenuanti comuni e speciali, tali considerando le circostanze diverse da quelle comuni, quando “le ritenga tali da giustificare una riduzione della pena”. Vorrei infine ricordare che la determinazione della pena, pur essendo discrezionale, (“il giudice applica la pena discrezionalmente”: art. 132 c.p.; “può prendere in considerazione circostanze diverse” da quelle comuni: art. 62 bis c.p.) è tra i compiti affidati all’organo che decide uno dei più delicati, perché richiede, oltre alla conoscenza dei fatti, oltre alla valutazione degli elementi di diritto, una buona dose di coraggio, e sempre si accompagna a uno stato di sofferenza interiore che niente, proprio niente può ripagare. Insomma: il giudice che ha emesso la sentenza che ha condannato l’imputato a sedici anni non si è inventato nulla, non ha creato mostri, ha trovato tutto scritto (nel codice e nelle massime della Suprema Corte). Il giudice che ha emesso quella sentenza avrebbe meritato pubblici elogi, altro che accuse o insinuazioni infamanti. E qui voglio, prima di chiudere, sottolineare un altro aspetto che non attiene alla sentenza ma alla condotta del magistrato, che pure è stata criticata. Dirò subito che ho apprezzato la dichiarazione, fors’anche equivoca, resa dal giudice dopo la sentenza, in una intervista rilasciata a giornali di grossa tiratura. Per quanto sia (e sia sempre stato) contrario alle interviste sulle sentenze (soprattutto su quelle rese da se stessi: e non vedo che altro può aggiungere di giuridicamente rilevante il magistrato che ha steso la sentenza), sono rimasto colpito dalla confessione che “anche il killer può fare pena”. Si tratta, a mio avviso, di una confessione politicamente scorretta, ma risponde alla verità, essendo anche il giudice un uomo (nel caso concreto una donna) con le sue pulsioni e i suoi sentimenti, un uomo (o una donna) che nel giudizio finale ha fatto valere anche la pena provata per l’imputato egli stesso colpito dalla tragedia (non può restare, e pare non sia rimasto indifferente al delitto l’uxoricida). Non si dica che, così facendo, si finisce per riversare sulla persona offesa (che è morta) gran parte della colpa (è lei che lo ha voluto). Non si dica che, così facendo, si fa pesare sulla vittima (che non può più parlare) gran parte delle responsabilità dell’accaduto. La sentenza che qui si commenta non è una sentenza assolutoria, è una sentenza di condanna che ha solo cercato di confrontare la gravità del fatto con la pena che può sempre suscitare l’autore. Il giudice estensore ha avuto il coraggio di dirlo. Bravo al giudice. Bravo a Silvia Carpanini.

Michele Di Lieto

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