Un approfondimento del giudice Di Lieto sulla questione Salvini e la Giunta del Senato

Questione ministro Salvini: una riflessione giuridica di Michele Di Lieto sull’operato della Giunta del Senato e del Tribunale dei ministri di Catania, utile forse anche agli addetti ai lavori

Il dr. Michele Di Lieto, giudice in pensione, che si è offerto di collaborare alla nostra testata, ci ha chiesto di pubblicare la nota che segue.
Si tratta di uno dei primi, se non il primo commento al parere (negativo) della Giunta del Senato per le autorizzazioni a procedere sulla richiesta, avanzata dal Tribunale dei ministri di Catania contro il ministro Salvini, imputato di sequestro di persona aggravato.
La nota ha questo di particolare: che non si limita a una esposizione acritica delle ragioni fatte valere dalla Giunta, ma estende l’esame alla richiesta che l’ha preceduta, ai rapporti tra Giunta per le autorizzazioni e Tribunale dei ministri, alla scriminante applicata.
Una nota, come al solito interessante, che si chiude con interrogativi sulla correttezza degli stessi criteri di competenza adottati. Interrogativi che rinviamo al lettore, lieti di ospitare, oltre al dr. Di Lieto, altre persone interessate.

Politica e magistratura: è solo incomprensione o una questione di potere?   

Il dott. Michele
Di Lieto

E’ di ieri (o ieri l’altro) la notizia (scontata) dell’atto col quale, al senato, la Giunta per le immunità ha detto no alla richiesta avanzata dal Tribunale dei ministri di Catania di sottoporre a processo il senatore Matteo Salvini, vice premier e ministro dell’interno dell’attuale governo, imputato di sequestro di persona variamente aggravato, comunque connesso all’esercizio delle funzioni. Ho detto: scontata, essendosi ricomposta giusto in tempo la maggioranza di governo Lega Cinque stelle, che sembrava potesse svanire, ed essendosi espressi in senso negativo (con votazione on line) gli iscritti al Movimento, ai quali i promotori avevano delegato la decisione, offrendo di attenersi all’esito della votazione quale che fosse, anche negativa (in contrasto con uno dei principi cardine dei Cinque stelle, da sempre orientati contro l’immunità parlamentare). La palla passa ora alla assemblea che dovrebbe esprimersi in tempi brevissimi, comunque entro il 24 di marzo: ma nessuno si attende sorprese da che, ricomposta la maggioranza di governo, e pertanto la maggioranza parlamentare, il Senato non avrà motivo di esprimersi in modo diverso dalla Giunta che ne fa parte. I fatti sono noti. Anche per i non addetti ai lavori. Ma non sarà male sintetizzarli per chi avesse memoria corta, attingendo, se del caso e per essere più breve, alla stessa ordinanza 7.12.2018 del Tribunale dei ministri di Catania, che, ravvisati nei fatti estremi di reato (sequestro di persona), esclusa qualsiasi esimente di diritto comune, ha chiesto, su parere difforme del Pubblico Ministero, autorizzazione a procedere alla camera di appartenenza del ministro.
I fatti. Nel pieno della stagione estiva dell’anno passato, il 20 di agosto del 2018, 177 migranti di varia nazionalità giungevano, a bordo dell’unità di soccorso “Diciotti” della Guardia costiera italiana, al porto di Catania, dove la nave veniva fatta ormeggiare. Il Ministro Salvini, insistendo su una linea, inaugurata coi primi atti di governo, e anticipata dallo stesso “contratto” approvato dalle forze politiche che vi avevano dato vita, non modificava questa linea nel caso in questione, bloccando di fatto lo sbarco su porto italiano e privando della libertà personale i 177 migranti, fisicamente e psichicamente provati, dal 20 al 25 di agosto del 2018, giorno in cui veniva autorizzato lo sbarco. Veniva data notizia dei fatti all’autorità giudiziaria: e il Procuratore della Repubblica di Palermo esercitava l’azione penale, potendo nella condotta del Ministro ravvisarsi estremi di reato. Gli atti, prima vagliati dal Tribunale dei ministri di Palermo, venivano poi trasmessi al Procuratore della Repubblica di Catania per ragioni di competenza territoriale. Il Procuratore chiedeva al Tribunale dei ministri di quella città l’archiviazione del processo per infondatezza della notizia di reato. Il Tribunale, invece, ravvisava nei fatti accertati, e nella privazione della libertà personale, così a lungo protratta, dei migranti trattenuti sulla nave “Diciotti”, gli estremi del sequestro di persona e, distinguendo l’atto politico in senso stretto, sottratto all’esame dell’autorità giudiziaria, dall’atto amministrativo con riflessi politici, sindacabile dall’autorità giudiziaria, ritenuta la condotta del Ministro ricollegabile ad atti amministrativi con riflessi politici, chiedeva al Senato autorizzazione a procedere, ai sensi dell’art. 96 della costituzione come modificato e integrato dalla Legge (costituzionale) n.1 del 1989. Gli atti trasmessi al Presidente del Senato pervenivano infine alla Giunta speciale, che si è pronunciata in senso negativo all’autorizzazione richiesta, anche se la decisione finale spetta alla assemblea, che non vi è motivo di dubitare, come è stato detto all’inizio, possa decidere in senso difforme dalla Giunta che l’ha preceduta. Dunque no all’autorizzazione: niente processo a Salvini. Mi sia consentita qualche considerazione sul provvedimento che ha detto no al processo a Salvini, e sugli atti che l’hanno preceduto (richiesta 7.12.2018 del Tribunale di Catania, Sezione speciale reati ministeriali). Come è noto, o dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori, per questi reati, contestati ai membri dell’esecutivo, la Carta costituzionale del ’48 prevedeva (art. 96) la messa in stato di accusa del Parlamento in seduta comune: privilegio speciale esso stesso in contrasto coi principi dettati dalla Carta in materia di eguaglianza, di separazione dei poteri, di attribuzioni proprie del giudice ordinario. Privilegio al quale era destinato ad aggiungersi, per analogia col processo per attentato e alto tradimento contro il Capo dello Stato, il giudizio riservato alla Corte costituzionale, in composizione integrata. E la Corte costituzionale ha giudicato fino a che l’art. 96 della Carta non è stato modificato. Dalla Legge costituzionale 1989 n.1, che ha devoluto la competenza in materia all’autorità giudiziaria ordinaria, chiamando a giudicare una sezione speciale del Tribunale ordinario (cosiddetto Tribunale dei Ministri) istituito non presso tutti i Tribunali, ma solo presso il Tribunale del capoluogo del distretto di corte di appello, e ponendo in ogni caso come condizione di procedibilità l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza dell’imputato. E’ pure noto, o dovrebbe essere noto, che l’autorizzazione a procedere, e qualsiasi filtro all’azione penale che limiti le competenze del giudice ordinario, nasce dalla necessità di conciliare due contrapposte esigenze: a) garantire ai membri dell’esecutivo l’esercizio della funzione senza prevaricazioni dell’autorità giudiziaria; b) fissare per i membri del governo un procedimento che non si differenzi eccessivamente dal processo ordinario. E’ infine noto che la camera cui appartiene l’inquisito può negare, nel nostro ordinamento, l’autorizzazione a procedere, nel caso in cui il membro dell’esecutivo “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo” (art. 9 n.3 delle legge costituzionale sopra indicata). Escluso che il ministro Salvini, nell’impedire lo sbarco dei migranti su suolo italiano, abbia agito per la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante, la Giunta senatoriale ha ritenuto la condotta del ministro dettata dalla volontà di affermare un interesse pubblico “preminente” nell’esercizio delle funzioni di governo, salva restando ogni diversa valutazione dell’assemblea alla quale spetta il giudizio definitivo. Ho detto sopra, e qui ribadisco, anche per valutare appieno la natura degli interessi perseguiti, che la condotta del ministro Salvini, al quale è stato contestato il reato di sequestro di persona aggravato, per avere bloccato (non interessa qui con quali mezzi) lo sbarco dei 177 migranti su suolo italiano, si inserisce in una linea perseguita dalla Lega, di cui Matteo Salvini è leader incontestato, resa pubblica e sottoposta al giudizio degli elettori il 4 di marzo dell’anno scorso; che questa linea è stata accettata da Luigi Di Maio, leader altrettanto incontestato del Movimento 5 stelle, che ha sottoscritto per suo conto il “contratto” che ha dato vita al governo; che questa linea è stata infine anticipata dal Ministro Salvini, e fatta propria dal governo, fin dai primi atti posti in essere dall’esecutivo (vicenda Aquarius, e così via). Converrà rivedere, ma solo brevemente, il “contratto” citato che, all’art. 13, destinato alla immigrazione, denunciava il “fallimento dell’attuale sistema di gestione dei flussi migratori”, segnalava la necessità di “ridurre la pressione dei flussi sulle frontiere esterne”, e di modificare la disciplina delle missioni europee nel Mediterraneo, eccessivamente “penalizzante” per il nostro Paese, in particolare “per le clausole che prevedono l’approdo delle navi utilizzate per le operazioni nei nostri porti nazionali, senza alcuna responsabilità condivisa dagli altri stati europei”. Ben vero che nel nostro caso non si trattava di una nave straniera, ma di una unità di soccorso della guardia costiera, sulla quale i migranti erano stati accolti al termine di estenuanti fatiche. Ma l’intento del ministro non poteva non essere lo stesso: denunciare una situazione (quella derivante dall’immigrazione) ormai “insostenibile” dal nostro Paese, sommerso da migliaia di migranti; tentare di coinvolgere nelle responsabilità conseguenti allo sbarco gli altri paesi europei; modificare, se del caso, gli obblighi previsti da trattati e convenzioni internazionali (Dublino, Schengen). Condotta, dunque, politica, posta in essere per finalità politiche. Condotta di governo, espressamente prevista dal “contratto” relativo. Condotta posta in essere in vista di un interesse pubblico, giudicato “preminente” su qualsiasi altro interesse. A queste conclusioni è pervenuta la Giunta investita per l’esame del caso. Che ha infatti suggerito alla assemblea senatoriale di negare l’autorizzazione a procedere “attesa la sussistenza della scriminante dell’interesse pubblico preminente prevista dall’art. 9 n. 3 della legge costituzionale del 1989 n. 1”. Il parere della Giunta non merita censure, non essendovi dubbio, anche ad avviso di chi scrive, che la condotta del Ministro Salvini fosse sorretta dall’intento di realizzare un interesse pubblico ritenuto “preminente” anche perché derivante dagli obblighi previsti dal “contratto” di governo. A conclusioni diverse era giunto il Tribunale dei Ministri di Catania, che aveva chiesto l’autorizzazione alla camera competente. Ma la decisione del Tribunale non mi convince. Non mi convince soprattutto la distinzione fra atti politici “in senso stretto”, sottratti al sindacato dell’autorità giudiziaria, ed atti amministrativi dettati da interessi politici, sindacabili, invece, dal giudice ordinario. Si tratta di una distinzione acuta, mutuata dalla giurisprudenza amministrativa, elaborata in seguito a interpretazione “costituzionalmente orientata” delle disposizioni di legge invocate (l’art. 7 del codice del processo amministrativo ritiene non impugnabili, dinanzi al giudice amministrativo si intende, “gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”). Si tratta di una distinzione che restringe l’area dell’atto insindacabile dal giudice ordinario ai soli atti politici in senso stretto, ed estende a dismisura l’area dell’atto sindacabile, sì da ricomprendervi la gran parte degli atti politici, ivi compreso quello in esame. In sostanza, secondo il Tribunale dei ministri di Catania, la categoria dell’atto politico “in senso stretto”, insuscettibile di qualsiasi controllo giudiziario, deve restringersi agli atti che attengono all’iniziativa legislativa del governo, alla questione di fiducia, alla gestione delle relazioni internazionali e ad atti consimili: a una serie, come ognun vede, non numerosa di atti, facilmente identificabili, quasi tutti connessi alle funzioni più alte dell’esecutivo. Sono questi, e solo questi, gli atti che possono essere sottratti al sindacato del giudice ordinario. Tutti gli altri, invece, possono dar luogo a sindacato (del Tribunale dei ministri in sede istruttoria e del Tribunale ordinario in primo grado di giudizio) e, se rivestano estremi di reato, a responsabilità penale. Intendiamoci: la decisione del Tribunale dei ministri di Catania non è da buttare. Si tratta di una decisione complessa e articolata che parte dall’esame del quadro normativo di riferimento per passare ai reati ministeriali, alla competenza funzionale del Tribunale dei Ministri, al reato ipotizzabile e alla sua qualificazione, all’elemento soggettivo e a quello oggettivo del reato, alle eventuali scriminanti di diritto comune (art. 51 c.p.). E qui il Tribunale di Catania si ferma, ritenendo la competenza del Tribunale dei Ministri limitata all’accertamento del fatto reato e alle scriminanti di diritto comune, e rinviando al Senato, al quale il ministro Salvini appartiene, l’esame delle scriminanti di diritto speciale, come quella dell’interesse pubblico preminente applicata dalla Giunta del Senato. Ho detto sopra che la decisione del Tribunale dei Ministri di Catania non è da buttare, così come non è da buttare il parere della Giunta senatoriale, al quale ho aderito. Le due decisioni non sono in contrasto tra loro. Chi volesse leggere i due provvedimenti come espressione di volontà diverse, l’una tesa a processare, l’altra ad evitare il processo al ministro Salvini, si sbaglierebbe di grosso. Richiesta del Tribunale dei Ministri e parere della Giunta non sono in contrasto fra loro. E non sono in contrasto perché diverse sono le competenze, diverse le questioni, diverse le norme applicate, e la Giunta non è giudice delle impugnazioni delle decisioni adottate dal Tribunale (a parte che la Giunta si limita a un parere, competente essendo sempre il Senato, di cui la Giunta fa parte). Dicevo che diverse sono le competenze, e questo è il parere del Tribunale di Catania che si è limitato all’esame degli aspetti tecnico giuridici della questione (esiste un fatto reato? esiste causa di giustificazione di diritto comune?) e rimette alla camera di appartenenza l’esame della valenza politica dell’atto (ricorrono le condizioni per l’applicabilità delle esimenti previste dall’art. 9 della Legge costituzionale 1989 n.1?): sì che la decisione del Tribunale dei ministri, pure apprezzabile sotto altri profili, appare quasi “monca” e lascia l’amaro in bocca di chi legge. Anche perché, assegnata al giudice ordinario la valutazione degli atti politici, che non siano atti politici in senso stretto, riservata alla camera di appartenenza ogni valutazione sull’interesse pubblico generalmente sotteso all’atto politico, l’attività del giudice ordinario appare nella gran parte dei casi destinata ad essere travolta dal’intervento della camera di appartenenza, essendo difficile ipotizzare un atto politico che non sia sorretto da un interesse pubblico, come quello previsto dal terzo comma dell’art. 9 della Legge costituzionale applicata. In ogni caso, questo è l’orientamento del Tribunale dei ministri di Catania, che non esamina le scriminanti speciali, se non per negare la propria competenza, e rimette espressamente l’esame della questione alla camera di appartenenza dell’inquisito (pag. 51 del provvedimento): sì che non c’è da stupirsi se la Giunta si sia espressa in senso favorevole alla applicazione della scriminante, sfavorevole all’autorizzazione a procedere. Insomma: se l’esimente prevista dall’art. 9 sfugge all’esame del tribunale dei ministri, e rientra nella competenza esclusiva della Giunta e dell’assemblea senatoriale, il giudizio finale non poteva essere diverso: l’esimente (volutamente ignorata dal Tribunale dei Ministri) è stata ritenuta applicabile dalla Giunta che ha chiesto (al Senato) di negare l’autorizzazione a procedere. Questo giustifica l’uno e l’altro provvedimento, basati, si ripete, sulla valutazione di aspetti e norme diverse. Resta da vedere se la distinzione operata dal Tribunale di Catania sulla competenza a decidere sulle scriminanti speciali, assegnate alla camera di appartenenza, e scriminanti comuni, assegnate al giudice ordinario, sia corretta e non ne consenta altre. L’interpretazione data dal giudice di Catania, che assegna alle camere competenza esclusiva sulle scriminanti speciali, sembra fondata sulla lettera della legge (art. 9 legge 1989 n.1: “l’assemblea si riunisce …. e può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con decisione insindacabile, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile…” ma non tiene conto della ratio della legge, che segna un passo decisivo verso l’eliminazione di privilegi ritenuti (già nel 1989) non più tollerabili, con l’ampliamento, non la restrizione di competenze del giudice ordinario. In ogni caso, se pure fosse esatta, la decisione del Tribunale dei ministri di Catania, potrebbe dar luogo, sotto il profilo pratico, a notevoli inconvenienti. Poniamo il caso che la Giunta si fosse pronunciata, per motivi politici che non dico, per l’autorizzazione a procedere. Il Tribunale ordinario avrebbe avuto in questo caso competenza piena, estesa alla applicazione delle scriminanti costituzionali, o si sarebbe dovuto arrendere di fronte a un atto ministeriale visibilmente dettato da un interesse pubblico preminente, ma disapplicato dalla camera di appartenenza? Non sarebbe più conveniente, anche in omaggio a principi di economia processuale, attribuire al giudice ordinario (e il Tribunale dei Ministri è sezione speciale del giudice ordinario) competenza piena, estesa a qualsiasi scriminante, anche nella fase istruttoria e prima della richiesta di autorizzazione a procedere? So bene che, in materia così delicata, il problema andrebbe affrontato, anche per evitare interpretazioni contrastanti, in sede legislativa, ma io non vedrei niente di male se si dovesse ritenere estesa alle scriminanti speciali la competenza del Tribunale dei Ministri, anche sulla base della normativa vigente. Si eviterebbero decisioni “monche” e processi “a vuoto” (nel nostro caso quello di Catania); si eviterebbero decisioni che, agli occhi del profano, possono apparire in contrasto fra loro.

Michele Di Lieto

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