Le elezioni europee. Popolari e socialisti al governo, “sovranisti” all’opposizione. Successo dei Verdi in Europa.
di Michele Di Lieto*
26 maggio 2019. Venne pure il 26 maggio. Coi suoi risultati. Così, mi ritrovo qui a parlare di un evento sconcertante, inaudito, non dico apocalittico, che è stato già detto (Travaglio), e non mi piace. A parlare cioè di un partito (o movimento) che, avendo ottenuto alle politiche del 2018 il 32% dei suffragi, ha dimezzato i suoi voti in meno di un anno, superato persino dal PD, un partito al collasso nettamente in rimonta. Ha vinto la Lega, ha vinto Salvini (34%): raddoppiando i voti (17%) ottenuti nel 2018. Cosa a taluno parsa inspiegabile: tanto più che i due partiti, Salvini e Di Maio, sono stati al governo assieme, per una esperienza che, evidentemente, ha giovato all’uno, non all’altro. Hanno vinto i sondaggi, diventati sempre più esatti. Ma neppure i sondaggi avevano azzardato previsioni così nere, indicando quasi sempre una forbice per contenere la sconfitta in termini più o meno accettabili, mai prospettando un fiasco di queste proporzioni. Perché? Perché è successo tutto questo? L’analista più attento ha cercato (e scoperto) una scusante, non sempre la stessa: a partire dall’inesperienza degli eletti (i leghisti tutti esperti) alle strutture carenti del partito, dalla diversa distribuzione territoriale (la Lega al nord, il Movimento al sud, dove minore è l’affluenza) alla mancanza di strategie della comunicazione (mentre Salvini ne è maestro). A queste cause, che hanno certamente concorso alla débacle di Di Maio, vorrei qui aggiungerne due, una di carattere generale, che riflette l’opera concreta di Di Maio, l’altra più specifica, che pure sembra aver pesato sul voto. Sotto il primo profilo, rimprovero a Di Maio, reduce da un successo (32%) di proporzioni inaudite, di avere deluso totalmente gli elettori “aggiunti”, di non aver fatto cioè niente di sinistra, neppure quel poco che era nei suoi programmi (ha fatto il reddito di cittadinanza, ma di questo parleremo tra poco). Sotto il secondo profilo, parlo delle promesse mancate di Di Maio, non di Salvini. Non senza fermarmi brevemente sulla natura di queste promesse: che in Salvini andavano dal “fuori gli immigrati” alla sicurezza interna a quota cento, problemi affrontati e risolti (o che l’elettore ha percepito come tali), e che in Di Maio si concentravano nel reddito di cittadinanza, anch’esso approvato, ma in modo tale che l’elettore (in gran parte meridionale) lo percepisse come una fregatura (dai pali e paletti che ne limitano l’accesso all’entità della somma, in qualche caso talmente irrisoria da suscitare lo sdegno di chi l’ha ottenuta). Come vorrei aggiungere qualche considerazione sull’ultima delle cause sopra indicate a proposito del flop di Di Maio: la mancanza assoluta di strategie della comunicazione (basti osservare lo spazio diverso occupato da Salvini non solo in TV, ma anche sul web e sui social, che l’altro quasi non usa): mancanza ancora più ingiustificata per chi, come Di Maio, era non solo Capo del Movimento ma, nel Governo, Ministro del lavoro, dello sviluppo economico e vice premier, e avrebbe potuto quanto meno impedire che Salvini, alleato di governo ma avversario alle europee, finisse per monopolizzare la televisione pubblica oltre che quella privata. Di Maio ha dunque perso. Salvini ha trionfato. Risultato questo che non può, come avevo facilmente previsto, non influenzare le sorti del governo, essendo mutati i fattori, Salvini al primo, Di Maio al secondo posto, tutto il contrario di com’era finora. Di fronte a questi risultati, non so come chiamarli ma segnano il tracollo dei Cinque stelle, sarà Di Maio a trarne le conseguenze. In tempi diversi, con politici diversi, qualunque leader si sarebbe dimesso. Di Maio non lo ha fatto. Di Maio non si è dimesso. Pare stia meditando la lezione che ammette di aver subito. Lezione che non sarà senza conseguenze (si pensi a quel che dice Salvini: la TAV, le autonomie, e così via). Farà Di Maio ancora il pupazzo nelle mani di Salvini? Temo di sì. Merito di Salvini, che si comporta come Capo a tutti gli effetti, demerito di Di Maio, forse appagato dal ruolo di comparsa che l’altro gli ha dato. Almeno fino alla nuova legge finanziaria, fino ai provvedimenti reclamati dalla Commissione europea, fino a nuove elezioni: solo le nuove elezioni ripartiranno diversamente i seggi, solo le nuove elezioni assegneranno ai partiti un peso corrispondente alla loro forza reale. Ciò detto delle europee, e dei riflessi sulla politica italiana, voglio parlare, sia pure brevemente, ma solo delle elezioni europee, di chi ha vinto e di chi ha perso. Hanno vinto popolari e socialisti, “europeisti”, che avevano sempre governato, ma per la prima volta in sessant’anni non hanno ottenuto la maggioranza richiesta. Per governare avranno bisogno di allearsi: coi Liberali o coi Verdi, anch’essi pro, non anti Europa. Hanno vinto per conto loro anche i “sovranisti” antieuropei: Salvini, Le Pen, e qualcun altro. Ma non hanno sfondato: dovranno rassegnarsi all’opposizione. Che sarà ferma, dura, senza compromessi, anche per via del successo elettorale. Del quale non potranno non tener conto i nuovi governanti: popolari e socialisti, col sostegno di Liberali e di Verdi. Dei quali ultimi non è possibile non parlare, avendo il popolo verde ottenuto successi in tutta Europa. In Germania, dove sono balzati al secondo posto col 20% dei voti. In Francia, dove sono giunti al terzo, dietro a Marine Le Pen e a Emmanuel Macron, Primo Presidente dei francesi. In Irlanda, in Belgio, in Spagna, in Portogallo, in altri paesi dove hanno provocato una vera “sciumara”(e chiedo scusa per il dialetto). Manca l’Italia, dove i Verdi non hanno neppure raggiunto la soglia minima del 4%: ma in Italia la lotta era ristretta anche per motivi interni a Salvini e a Di Maio, cui si è aggiunto all’ultimo momento Zingaretti, Segretario del Partito Democratico, dato per morente e risuscitato (ha scavalcato anche Di Maio). Questa sui Verdi apre però l’ingresso a un’altra considerazione. Sull’affluenza alle urne che, in Europa, non è mai stata così alta (in controtendenza l’Italia, specie nel Meridione). Un’affluenza fatta di giovani, soprattutto di Verdi, che sembrano aver unito alla proposta ambientalista il dissenso giovanile e progressista (deluso forse dai socialisti e dalle forze di sinistra). Dissenso giovanile, dissenso progressista, portato avanti dai Verdi, su temi che cercano di conciliare problemi tipicamente ambientali con esigenze più propriamente sociali: i primi, portati alla luce giorno per giorno dall’andamento del clima, dalla neve di maggio, dalla plastica a mare; le altre, tese ad evitare ai deboli, soprattutto a loro, i disagi derivanti dalla transizione verso sistemi ecosostenibili (welfare a livello europeo, equa retribuzione, diritti sindacali, condizioni di lavoro dignitose, diritto di asilo per i migranti, parità di genere e lotta alla violenza in generale). Temi che saranno sicuramente ricompresi nell’agenda politica dei nuovi governanti. A loro dovremo rivolgerci con fiducia, come con fiducia dovremo rivolgerci al popolo verde, già proiettato verso il futuro. Dovrà farlo anche chi, come me, non ha votato per Salvini, non ha votato per Di Maio, non ha votato neppure per i Verdi, ha votato per qualcuno che manco il 4% ha guadagnato. Ho chiuso.