Il fumo fa male, ma anche il giudice Michele Di Lieto continua a fumare, perché?

A proposito di fumo, e del diritto di fumare difeso da Michele Ainis su La Repubblica del 7 febbraio ultimo scorso, dissento da chi dissente (Laura Grenci, Venerdì di Repubblica  21.2.2020).

Sono naturalmente un fumatore. Uno che fuma almeno da sessant’anni (sono nato nel ’40) anche se ha ridotto in misura considerevole negli ultimi tempi l’uso di nicotina. Uno che naturalmente non può essere disposto ad accettare limitazioni di sorta.

Oltre a quella che limita il fumo, ma solo nei locali pubblici e nei luoghi o spazi ad essi equiparati, mentre lo Stato imperterrito continua a vendere sigarette, incurante dei pericoli che il tabagismo può provocare e che nessun profitto può giustificare. Sembra infatti accertato che qualsiasi legge studiata per limitare l’uso di nicotina, dopo riduzioni iniziali, non ha avuto effetti di rilievo sulla popolazione dei fumatori, attestata oramai a livelli non più modificabili. L’unica legge possibile contro il fumo sarebbe quindi quella che fa divieto, anche allo Stato, di porre in commercio prodotti così gravemente dannosi per la salute. Vero è che una legge del genere provocherebbe danni enormi all’economia del paese e al bilancio statale. Ma delle due l’una: o il diritto alla salute deve ritenersi preminente su qualsiasi altra esigenza del cittadino, e il commercio del tabacco deve essere vietato, o il diritto alla salute può anche essere sacrificato alle esigenze economiche del paese, e allora è inutile qualsiasi normativa che faccia conto sulla buona volontà del consumatore. Allo stato, escluso che io  faccia parte di quella schiera di consumatori che ha tentato, e talvolta ci è riuscita, ad eliminare il vizio del fumo con uno sforzo di buona volontà, voglio chiarire perché io sia schierato a favore di chi (Michele Ainis) difende il diritto del fumo  contro chi (Laura Grenci) lo nega. Intanto, perché ritengo che il diritto di fumo rientri nell’ampia categoria dei diritti di libertà che nessuna norma può sacrificare. Si è liberi di fumare, come si è liberi di drogarsi o di assumere alcoolici. Poi perché, convinto dei pericoli del fumo, anche di quello passivo, cerco di esercitare questo diritto con estremo rispetto per chi non fuma. Mia moglie, ad esempio. Mia moglie è una non fumatrice da una vita, una che sente l’odore di tabacco sui panni, sulle tende, sulle poltrone, sui divani, dovunque si sia fumato.

In casa, abbiamo raggiunto un compromesso onorevole: fumo nel bagno, non quello di servizio che resta a lei: lo trova più comodo perché vicino alla cucina dove si mangia. Inoltre, cerco di evitare di buttare mozziconi per terra. Confesso anzi che, fumando sul terrazzo nelle giornate di sole, sono stato spesso tentato di buttare, e ho buttato i mozziconi per strada, quando era sgombra. Non lo faccio da tempo. Da quando per un soffio non ho investito il pedone improvvisamente comparso dall’angolo della strada. Come si vede, non costa nulla, e il mio diritto coesiste con quello di mia moglie di non essere investita dal fumo di tabacco, di non sentirne l’odore.

Il coronavirus è scoppiato in Cina, ma…

Ci voleva solo questa. La pandemia da coronavirus. E’ scoppiata in Cina, dove ha mietuto migliaia di vittime, decine di migliaia i contagiati, migliaia di morti. Ma si è diffusa in altri paesi in men che si dica: con le autorità di governo pronte a vietare qualsiasi contatto con gente malata o solo sospettata di essere malata, con le autorità sanitarie pronte a potenziare le terapie intensive, od anche solo l’attività di ricerca, almeno fino a che il virus non è stato isolato (sembrava un grosso passo avanti, ma l’antivirus non è stato trovato). Ora, nessuno pretenderà che le nostre autorità di governo e le nostre autorità sanitarie fossero preparate anche solo a parlare di virus influenzali. Ma la situazione è grave, come appare dalle cifre aggiornate giorno per giorno, ora per ora: e a nessuno sfuggirà che il nostro è il terzo paese, per numero di infettati e per numero di morti, dopo la Cina e la Corea del sud.  Se in Italia si fanno migliaia di tamponi, in Francia solo poche centinaia, se in Italia vi sono dodici morti accertati, in Francia solo uno, qualcosa in Italia non va, e non basta lanciare messaggi di concordia e di pace, anche se le stesse forze di opposizione sembrano convinte di non potere continuare una politica esasperata in un momento così grave per la vita del paese. Che ne risente, e non può non risentirne soprattutto sotto il profilo economico. Un paese come l’Italia che trae linfa vitale dal turismo, non può tollerare che gli altri paesi non solo europei non cessino di scoraggiare chi vuole venire a visitare Venezia, o Milano, o Firenze, o Napoli, o Palermo. Ma se le stesse autorità italiane chiedono alle nostre popolazioni di rinviare le loro esigenze di viaggio, non si capisce perché la stessa cosa  non debbano fare le autorità francesi, o inglesi, o bulgare, o ceche. Le conseguenze sono naturalmente gravissime. Per un paese che per suo conto pareva già rassegnato alla recessione, la recessione sarà un effetto sicuro del Coronavirus. E naturalmente le conseguenze non si pesano solo sul turismo, ma su qualsiasi attività commerciale, essendo fatalmente destinate a ridursi le attività di importazione (dalla Cina) e di esportazione (verso la stessa Cina). Il fatto è, come è stato notato (Financial Times), che la Cina si trova oggi al centro di numerose “global supply chain”, catene di produzione globali. In parole semplici, una vettura tedesca può essere oggi progettata in Germania, i suoi componenti possono essere prodotti in Cina, Polonia e Argentina, usando materie prime provenienti dal Congo, dal Brasile e dall’Italia, per essere assemblati in Romania ed essere venduto in tutta Europa. Basta insomma che un anello della catena si inceppi, perché ne venga danneggiato tutto il sistema export-import, soprattutto se a incepparsi è la Cina, che ha numerosi centri di produzione di componenti automobilistici (vedi Wuhan, al centro della pandemia). Naturalmente ad essere maggiormente colpiti sono i Paesi come l’Italia, che hanno problemi di lavoro, e vedono da un giorno all’altro aumentare i licenziamenti, diminuire i posti occupati. Un disastro, un catafascio. E non è il solo settore ad essere toccato dal Coronavirus. Si pensi allo sport, alle manifestazioni sportive, rinviate a data da destinarsi, quando non siano senz’altro abolite: con effetti naturali sul turismo, interno e internazionale. Si pensi alle scuole, si pensi ai convegni, si pensi alle chiese, si pensi ai musei, si pensi a  tutto ciò che raccoglie gente, essendo il contagio più che temuto fatto oggetto di panico. Ho detto all’inizio che un fenomeno così delicato non poteva essere governato da un esecutivo così debole quale è quello italiano. Errori ne saranno stati fatti: non solo dalle autorità di governo, che hanno sicuramente esagerato, ma anche da quelle sanitarie, che sono ancora convinte di avere evitato mali peggiori, fermando all’inizio qualsiasi pericolo di epidemia.  Con questo governo, ho già accennato, le divisioni non sono cessate.

Da un lato Salvini, che considera Giuseppe Conte un incapace, e continua a reclamare il voto, il voto popolare, come mezzo per dotare il popolo di un concreto mezzo di scelta; dall’altro il Capo del governo che, cedendo anche a pressioni del Movimento cinque stelle, ha adottato un decreto pesantissimo, che non può ritenersi un mezzo di aiuto a nuovi posti di lavoro. Ma le reazioni più pesanti sono state quelle dell’informazione, divise tra chi minimizza (poche) e chi esagera (molte), sia che approvi, sia che respinga le misure antivirus. Quello che a me pare certo, e che più volte ho sottolineato, è che questo governo, il nostro governo, non pare idoneo a contrastare fenomeni così pericolosi da mettere in forse il commercio dentro e fuori nazione: tanto meno una pandemia che ha investito tutti i paesi del mondo. E che questo governo non può continuare con le forze che si è dato: forze e programmi talmente diversi che nulla è in comune tra loro e che ogni decisione è frutto dei peggiori compromessi. Penso ancora che il voto, per più tempo negato, debba essere restituito al popolo. Solo il popolo dirà qual è l’arma migliore anche per le pandemie.

Michele Di Lieto*

 

*Magistrato in pensione e scrittore

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