Come era prevedibile un nuovo disastro ambientale si è verificato nel nostro Paese. Ha colpito l’Emilia-Romagna con una violenza inaudita. Non c’è area emiliano-romagnola che ne sia rimasta immune: e si tratta di migliaia di chilometri quadrati. Fiumi straripati, terreni inondati, strade allagate, case evacuate, migliaia di sfollati, centinaia di persone ancora isolate. Il bilancio delle vittime è spaventoso, terrificante come quello delle Marche, che è l’ultimo disastro che si sia verificato. Allora, i morti erano stati undici, i dispersi due: oggi, si contano nove morti, non so quanti dispersi, e speriamo che il bilancio sia quello definitivo. Oggi come allora ci si interroga sulle cause di queste sciagure, che taluni ritengono eccezionali, dovute a precipitazioni inusitate (la pioggia caduta in 24 o 48 ore pari a quella che cadeva in sei mesi), che altri addebitano a colpa dell’uomo, se non esclusiva, concorrente, per mancanza o insufficienza di opere di prevenzione, atte a mitigare gli effetti del fenomeno naturale. Il fatto è che questi disastri si verificano con tale frequenza che non possono più considerarsi eccezionali.
Il nostro clima si è tropicalizzato, nulla sarà come prima. Queste le dichiarazioni di non so quale Ministro. Perché le espressioni di cordoglio, e di vicinanza alle popolazioni colpite, sono state unanimi, dal Capo dello Stato all’ultimo Sottosegretario: come sempre avviene in questi casi, salvo a scordarsene il giorno dopo, sommersi dal rumor provocato da altri eventi, speriamo diversi e meno dolorosi. Certamente, se venti fiumi sono straripati travolgendo ogni cosa, se le strade allagate sono diventate impercorribili, il traffico ferroviario bloccato, le campagne ridotte ad acquitrino, gli abitanti invitati a rifugiarsi nei piani alti, alcuni salvati da elicotteri calati sul tetto delle case, se tutti hanno trascorso due notti di inferno, se non c’è città che non sia stata colpita (prendiamo ad esempio Bologna, Faenza, Forlì, sono i primi nomi che mi vengono a mente), se ci sono tredicimila sfollati, se il disastro non appare cessato, e si teme che un’altra sciagura possa seguire alla prima, vorrà dire che con questi eventi occorre convivere, e che non si può più chiamare in causa la natura, o le variazioni climatiche. E dire che la sciagura si è verificata in Emilia-Romagna che sono regioni avanzate, figuriamoci se si fosse abbattuta su regioni del sud, carenti di ogni progetto, di ogni piano ambientale. Eppure, anche se si tratta dell’Emilia-Romagna, sarei curioso di sapere da quanti anni i fiumi, ma spesso si tratta di ruscelli, torrenti di modeste dimensioni, non vengono dragati, da quanti anni gli argini non vengono controllati, da quanti anni non viene assicurato il deflusso normale delle acque, da quanti anni non è stata, se mai è stata realizzata una cassa di espansione, che sembra l’unico rimedio contro le invasioni eccezionali (la Romagna ne è priva, l’Emilia è la regione più dotata, ma si tratta di opere tecnologicamente superate). Ma che? Se ci sono risorse, e tutti guardano al Pnrr, queste sembrano riservate ad opere colossali, penso al ponte di Messina, che nulla hanno a che fare con eventi destinati a ripetersi e coi quali dovremo convivere.
Eppure il Piano nazionale, che fa seguito alle direttive europee, dovrebbe curare particolarmente le variazioni climatiche, e non credo sia questa la natura degli interventi idraulici, anche se solo progettati. Il danno, se pure non ancora calcolabile, appare enorme. Il danno alle campagne, dove l’alluvione ha distrutto le colture. Il danno agli impianti, dove intere città sono rimaste senza luce. Il danno alle case, dove le acque hanno aggredito i piani bassi. Il danno alle strutture, dove ponti sono caduti o stanno per cadere. Il danno alle cose, dove centinaia di veicoli sono stati sommersi dalle acque e dal fango. E scusate se è poco. Giustamente, le autorità, dalla Protezione civile all’ultimo sindaco di periferia, invitano la popolazione ad abbandonare le cose per mettersi in salvo e andare a ingrossare il numero degli sfollati: tredicimila, e io non so se, tranne le grosse città, i comuni emiliani e romagnoli abbiano strutture ricettive adatte ad ospitare, e per quanto tempo, gli sventurati privati delle loro cose, a cominciare dall’abitazione. Non tutti hanno obbedito, soprattutto i più anziani, troppo attaccati alle loro cose, frutto spesso del lavoro di una vita.
L’immagine che più mi è rimasta impressa, messa in onda dalla televisione, è stata quella di una vecchina, portata a spalla da un soccorritore, con l’acqua che arrivava all’altezza delle braccia (del soccorritore) con in mano (la vecchina) bene stretto un fazzoletto annodato, quello che noi chiamiamo “muccaturo”. Vi teneva, non più tanto nascosto, quel poco d’oro, quel poco di danaro, quel tanto di ricordi di una vita. Questo era tutto quello che aveva salvato, ma era viva. Ecco: a quella vecchina sono rimasto a pensare dopo averla vista. Mi auguro, e le auguro, di essere la prima a tornare (ce ne saranno pure a tornare nelle loro case) col “muccaturo” in mano, lei salva, e salvo anche il “muccaturo”.
Michele Di Lieto*
*Giudice in pensione e scrittore