Don Giovanni Cairone, un “prete di campagna” che vive i problemi tra la gente, che si sporca le mani, operando alla don Milani.

Don Giovanni
Don Donato

Approfittiamo del bell’articolo sulla legge  sull’“Autonomia differenziata”, scritto da Don Giovanni Cairone, ministro della Chiesa. Colto ed intelligente, egli svolge il suo ministero, non solo in chiave spirituale o semplicemente celebrativo-liturgica cancellando la solidarietà umana, facendo finta di niente, di fronte alle storture sociali, umane e alle scelte politiche sbagliate che danneggiano i più deboli, ma dà il suo contributo di idee, dando una identità alla sua pastorale, alla pari dell’ultimo suo maestro, Don Donato Orlando.
Così come Don Lorenzo Milani, che era convinto che solo la cultura può aiutare i contadini a superare la loro rassegnazione e che l’uso corretto della parola equivalga a corretto della parola equivalga a ricchezza e libertà, anche Don Giovanni Cairone è convinto che certe leggi o azioni burocratiche indeboliscono sempre di più il Sud, per cui la Chiesa dev’essere in prima fila per difendere i più deboli ed i territori.

Don_Lorenzo Milani e i suoi ragazzi

A tal proposito, scriveva Georges Bernanos,  nel suo libro, “Diario di un parroco di campagna”,  “L’unica arma contro la diffidenza dei compaesani è la parola del Vangelo portata di casa in casa in sella a una sgangherata bicicletta…”. Solo che Don Giovanni va in giro in macchina e non in bicicletta. Ma nulla cambia, perché alla fine, si raggiunge lo scopo di stimolare il prossimo a lottare per la giustizia, nel segno dell’amore e della giustizia, con il Signore che  va sempre in soccorso al prossimo, anche attraverso un “prete di campagna”.
E il giovanissimo Don Giovani Cairone, adesso è  anche lui è un prete di campagna a tutti gli effetti, perché il Vescovo Vincenzo Calvosa lo ha destinato alle parrocchie di piccole comunità. come Serramezzana, Capograssi, Ortodonico, Zoppi, Fornelli e Cosentini, piccole realtà rurali del Cilento profondo.
Don Giovanni mi ricorda, come dicevo sopra, un po’ il suo maestro, Don Donato Orlando, quando giovane prete arrivò a Capaccio Scalo, alla parrocchia di San Vito, patrono di Capaccio Paestum. Si rimboccò le maniche, stimolando la comunità a riprendere un cammino di solidarietà ed amore, utilizzando anche i mezzi di comunicazione.
Il nostro giornale “il Sud” ha ospitato, spesso, le sue iniziative pastorali, dedicandogli molto spazio (una o più pagine). Da tutto questo sono scaturite molte iniziative e realizzate tante cose, per la comunità locale, per la comunità locale, come un progetto per la ristrutturazione della chiesa, la realizzazione dell’oratorio, ed altro.

Da sinistra Don Donato, Don Giovanni e Don Mimmo

Lo abbiamo già scritto, ma ci fa piacere riscriverlo, a proposito di Don Donato Orlando. Nonostante egli operi in una cittadina di 23 mila abitanti, può essere definito anche lui un “prete di campagna”, vista la ruralità del territorio. E’ una persona umile, ispirato alla pastorale ed allo spirito del Vangelo, che non esita a sporcarsi le mani, per aiutare i più deboli ed apostrofare i prepotenti.
Tant’è che il suo operato è stato sempre apprezzato dai Vescovi che si sono succeduti nella Diocesi di Vallo della Lucania.

Monsignore Calvosa con il Sindaco Sansone

 

La sua permanenza a Capaccio Paestum continua ancora ad essere preziosa ed apprezzata.
Don Donato, inoltre, con il suo impegno pastorale e la sua tenacia, è riuscito ad acquisire la chiesa di San Vito, la canonica e il campanile, che oggi sono diventati di proprietà della Chiesa. A questo va aggiunto un meraviglioso periodo del trio: Don Donato Orlando, Don Giovanni Cairone e Don Mimmo De Vita che sotto la guida di Don Donato la Chiesa del patrono San Vito di Capaccio Paestum ha beneficiato di momenti straordinari, ma soprattutto di solidarietà per tutta la popolazione.
A tal proposito, (e pure questo l’abbiamo già scritto) Papa Francesco dice: << Un sacerdote non è un rigido “professionista della pastorale”, ma un uomo sempre vicino al “popolo”, di cui è padre e fratello, e soprattutto un  “apostolo di gioia” del Vangelo>>. Ritornando a Don Giovanni Cairone ed alla sua riflessione su quello che rappresenta l’ “Autonomia Differenziata” per le popolazioni del Mezzogiorno e le sue comunità rurali. Prive di servizi primari e secondari, esse sono costrette a vivere momenti di crisi, non solo economica ed occupazionale, per carenza di investimenti delle Istituzioni, ma di sofferenza, soprattutto socio-sanitarie, spesso senza nemmeno il medico di famiglia.Don Giovanni Cairone, quindi, seguendo l’indirizzo della Chiesa, coglie l’occasione per una riflessione preoccupata, sul futuro del nostro Paese e del nostro Sud, partendo dai dettami della Chiesa, in campo sociale e dottrinale.

Nigro Nicola  

IL “NO” DELLA CHIESA SULL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA

di Don Giovanni Cairone

Partiamo dalla considerazione sull’autonomia in senso morale. Il cristiano adulto che riflette sulla propria fede in Gesù Cristo è ben consapevole del suo agire che ha un fondamento radicato nella propria fede personale col Signore. È consapevole anche delle difficoltà che incontra nella sua vita, per essere fedele alla chiamata del Signore. Il cristiano sa che la sua risposta al Signore è sempre “personale”, deve saper rispondere con libertà e consapevolezza a ciò che il Signore lo sta chiamando.
È nell’autonomia personale del credente che l’uomo risponde ad una specifica chiamata. Questo vale anche per la nostra amata politica che deve guidare il popolo che governa a un bene: il Bene comune. Nel bene comune (che è uno dei principi della morale oltre alla solidarietà e alla sussidiarietà) non c’è il bene del singolo, ma il bene della comunità, dove ogni singolo può estrapolare un bene per sé che a sua volta diventa condivisione.
È proprio nei termini di solidarietà e condivisione che dobbiamo guardare l’autonomia differenziata, perché differenziando i servizi avviene anche la divisione e la suddivisione di un popolo. Non possiamo permettere questo perché crea disparità tra Nord e Sud come già c’è, anzi l’autonomia dovrebbe fare l’inverso aiutare il Mezzogiorno favorendo più crescite in ambito sanitario, amministrativo, politico, culturale, industriale. Solo così allora la nostra Italia non avrà preferenze e spaccature, ma se l’autonomia privilegerà sempre di più le regioni ultra-sviluppate alla fine dei conti il Mezzogiorno rimarrà sempre più abbandonato dove i fondi per la scuola e la sanità saranno sempre meno e ci sarà meno istruzione e meno sanità. Ci sarà un ritorno al passato, un regresso e non una progettazione futura che si chiama progresso. Così facendo leggeremo l’autonomia in termini di solidarietà e anche in termini di progresso.
La solidarietà non dobbiamo leggerla come un sentimento solidale o come un’azione caritativa da compiere nei confronti di chi ha bisogno, ma come elemento base e costruttivo di vicinanza e di prossimità nei confronti delle classi sociali più deboli. Anche la sussidiarietà va letta in termini di prossimità. Entrambe portano alla condivisione di beni e di valori nel bene comune. Nel bene comune non solo vedo il mio bene ma il bene di tutti che diventa comunemente e concretamente possibile per la realizzazione della società più giusta e più equa, fondata sui valori della giustizia e della verità.
«Il Paese non crescerà se non insieme». Questa convinzione ha accompagnato, nel corso dei decenni, «il dovere e la volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese». È un fondamentale principio di unità e corresponsabilità, che invita a ritrovare il senso autentico dello Stato, della casa comune, di un progetto condiviso per il futuro.
Sono parole che fanno discutere sulle modalità di attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, secondo quanto consentito dal dettato costituzionale. Ed è proprio la storia del Paese a dirci che non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune. Questi principi vengono elencati dalla presidenza della CEI per discutere di problemi sociali che riguardano tutti gli uomini e tutti i cristiani impegnati nel sociale.
Dire autonomia significa eliminare non definitivamente, ma in parte, alcuni valori portanti dell’umanità: la valorizzazione e l’inclusione degli ultimi. Sono proprio gli ultimi i primi da aiutare e sostenere nel loro cammino sociale ed ecclesiale. Anche Gesù nel Vangelo dice di aiutare i poveri, soccorrere le vedove e gli ultimi. Questo è un grande impegno morale, civico, sociale ed evangelico.
Ancora, noi non possiamo e non dobbiamo sostituire l’uomo con i robot perché l’autonomia differenziata è ben collegata con l’intelligenza artificiale, dove sembra ormai prendere il sopravvento in ogni angolo della società, e sembra mettere in crisi l’esistenza e l’autonomia e la condivisione degli uomini che operano per il bene di tutti. Inoltre con l’intelligenza artificiale noi non abbiamo nessun diritto e nessun dovere di sostituire l’uomo dotato di razionalità (formato da corpo e spirito) con la robotica multimediale. Noi non siamo il prodotto commerciale della robotica e della tecnologia, ma il dono gratuito ed eterno dell’amore di Dio, che supera le barriere e le differenze.
Ora, è appena il caso di fare una piccola incursione nei dettagli della Legge Costituzionale, primo firmatario Calderoli, che va sotto il nome di “Autonomia differenziata”.
Non si può non partire dalla Carta Costituzionale che, all’art. 3, ricordando l’importanza di tutelare i diritti civili e sociali per ogni cittadino della Repubblica, recita testualmente:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ma perché una moltitudine di nostri concittadini, specie meridionali, teme le conseguenze dannose di questa riforma? E perché anche i Vescovi italiani, nell’ambito della Conferenza Episcopale Italiana, hanno espresso non poche riserve sulla sua applicazione? Questa è una legge che trasferisce alle Regioni la gestione di servizi e diritti fondamentali su materie importantissime per i cittadini: la salute, la scuola, i trasporti, l’ambiente, la ricerca, il commercio con l’estero, l’energia e tante altre. Queste materie passerebbero attraverso la competenza delle Regioni e non più dello Stato, con conseguente diritto a trattenere per se il gettito fiscale statale che, di conseguenza, non sarebbe più distribuito su tutto il territorio nazionale.
Il pagamento delle tasse in misura equanime non garantirebbe perciò parità di servizi tra tutti i cittadini. Avverrebbe, infatti, che le Regioni ricche assicurerebbero servizi di qualità superiore rispetto a quelle meno ricche, che non sarebbero più sostenute in misura sufficiente per colmare i propri ritardi, con buona pace del principio di Solidarietà nazionale.
Ora, se è bene difendere il principio di Sussidiarietà, caposaldo di ogni autonomia, che si sostanzia nel riconoscimento di una certa indipendenza a un’autorità subordinata rispetto a un’autorità di livello superiore, segnatamente a un ente locale rispetto a un potere centrale, resta da verificare la sua corretta applicazione, senza che, in suo nome, si crei il pretesto per “differenziare” in maniera indiscriminata i servizi e le funzioni statali.
Il principio di Sussidiarietà trova autorevole spazio in diritto, ed è il principio secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione. Ed è proprio questo il nodo da sciogliere: lo Stato, depotenziato delle sue risorse finanziarie e delle sue funzioni, come potrà intervenire efficacemente nel sostenere l’azione insufficiente delle Regioni dotate di minori capacità di spesa? Avrà più senso parlare di Stato Unitario?
Ricordiamo quanti danni abbia già prodotto la riforma costituzionale del 2001 che ha delegato pressoché integralmente alle Regioni la gestione della Sanità pubblica. Da allora, e più di prima, sono aumentati i “pellegrinaggi” dei pazienti del Sud verso le strutture sanitarie del Nord, più dotate e più efficienti. Il diritto alla salute non può dipendere dal luogo ove si nasce e si vive!
Come poi si può attuare un’efficace politica energetica a livello regionale? Come può farlo una Regione, magari, piccola come il Molise?
Immaginiamo poi la confusione che genererebbe la gestione di infrastrutture complesse e strategiche come porti e aeroporti, laddove basterebbe varcare un confine regionale per ritrovarsi con competenze e normative diverse. Queste sono piuttosto materie strategiche che devono essere gestite a livello centrale nazionale, anzi europeo.
Così come è impensabile che la gestione del nostro patrimonio ambientale, dei rifiuti, dell’agricoltura possano essere differenti da Regione a Regione. L’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, devono avere una qualità garantita per tutti.
Per non parlare poi dell’offerta scolastica, che si differenzierebbe in maniera sostanziale, perché le Regioni più ricche avrebbero la possibilità di pagare meglio gli insegnanti, in forza delle maggiori risorse, con l’inevitabile conseguenza di una “fuga di cervelli” dalle zone più disagiate.
Si frantumerebbe così l’Italia in tanti piccoli “staterelli” di risorgimentale memoria!
I servizi non sarebbero garantiti in maniera equanime su tutto il territorio nazionale, la burocrazia, anziché essere semplificata, diventerebbe un ostacolo insormontabile, se ci si dovesse confrontare con venti differenti sistemi sanitari, venti diversi sistemi di trasporto, venti diverse politiche ambientali, scolastiche, energetiche ecc.
Ecco spiegato il motivo per cui questa riforma preoccupa, e non poco, anche la Chiesa Italiana, spaventata dalla prospettiva di una Italia a 2/3 di velocità.
Facciamo voti che lo Spirito Santo illumini le menti di quanti, a qualsiasi livello, detengono il potere e la gestione della Cosa Pubblica, perché la preoccupazione per il “Bene Comune”, di cui sopra abbiamo già parlato, sia prevalente su egoismi, convenienze ed interessi di parte.

Don Giovanni Cairone

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