Il mio papà e il papà di Italo Calvino, entrambi, amavano tanto lavorare la terra
di Michele Di Lieto*
“La strada di San Giovanni”: è un racconto di Italo Calvino. Né breve né lungo, una trentina di pagine fitte, come si addice a un racconto. E nessuno come Calvino è capace di trasformare un racconto di vita vissuta in storia di un’epoca, evocazione di un mondo, la civiltà contadina, avviata al tramonto se non alla fine, nel periodo descritto nel brano che qui si commenta.
Vita vissuta: ed è l’infanzia, la prima adolescenza di Calvino. Segnata da quella levata mattutina, quell’alzarsi alle sei (che poi diventano sette per l’intervento benevolo, ma altrettanto severo, della madre, era lei a tirar via le coperte: “Su, su, è tardi, babbo è andato via da un pezzo; su, su, che babbo vi aspetta per portare le ceste”. Perché questo era il compito suo, e del fratello, di poco più piccolo (ma si alternavano, un giorno l’uno un giorno l’altro): rincorrere o raggiungere il padre, aiutarlo a portar vie le ceste ricolme dei prodotti della terra, la terra del padre, la terra di San Giovanni. Eppure, il racconto di Italo Calvino non è mera autobiografia. Perché, pur essendo stato pubblicato nel ’62, questo racconto anticipa quelle che saranno le note tipiche della produzione (racconti e romanzi) letteraria di Calvino: per quel suo saper mettere assieme presente e passato, vero e falso, realtà e fantasia. E, quanto alla autobiografia, era lo stesso Calvino a ricordare, quanto a sé, che ogni romanzo è autobiografia, e che, cerca cerca, il protagonista di ogni romanzo gli somiglia.
Calvino insomma non ha scritto una autobiografia, ma tante autobiografie, quanti sono i suoi romanzi, quanti sono i suoi scritti. Così, ne “La strada di San Giovanni”, il primo o uno dei primi racconti di Calvino, l’autobiografia c’è, ed è quella della sua infanzia e della sua adolescenza: una infanzia e una adolescenza viste però con gli occhi del dopo, gli occhi di chi, abbandonati gli studi di agraria, oggetto di una prima laurea, si è presa una seconda laurea, in Lettere, ha cominciato a scrivere e sono arrivati i primi successi: sì che l’infanzia e l’adolescenza non sono più quelle di un infante o di un adolescente, come veramente è stato, ma quelle modificate dalle esperienze successive, e rivivono nel racconto mescolate assieme, quelle recenti e quelle antiche, quelle vere, e quelle sognate come anticipazioni di vita futura. Le due cose sono così bene legate, così fuse, che quasi non ci se ne accorge, intrecciate come il “mallo col guscio”, avrebbe detto lo stesso Calvino.
E’ così anche per il contrasto tra padre e figlio, tra vita di campagna e vita cittadina, è così infine per la guerra che è vista come un là da venire, come la può vedere l’infante o l’adolescente, non come dovrebbe vederla uno che della guerra ha visto gli orrori (la fame, appena calmata da frutta e verdure, quelle prodotte dal padre, quelle stesse che era d’obbligo portare nelle ceste colme), ha fatto la Resistenza, per sottrarsi alla leva ordinata dalla RSI (il che chiarisce da che parte stesse, vicino al mondo di sinistra, socialisti e comunisti, anche se lui, Calvino, si è professato sempre anarchico), ha ricoperto incarichi prestigiosi, si è messo a scrivere, è già passato dal racconto al romanzo ( “Il sentiero dei nidi di ragno” è del ’47, ma è stato riveduto e corretto dallo stesso Autore nell’ultima edizione nel ‘64). Di tutto questo non c’è niente ne “La strada di San Giovanni”: se c’è, bisogna coglierlo tra le righe, perché il mondo del giovane Calvino ci riporta indietro, come il sogno di un bambino. Perché dico tutto questo? Non certamente per fare una analisi del racconto, o dei racconti di Calvino: che altri ha già fatto, e meglio di me. Lo dico perché “La strada di San Giovanni” mi ha fatto rivivere persone e cose di un tempo lontano, fatto solo di ricordi, incompleti, distorti, falsati, o solamente sognati: né più né meno come quelli di Calvino. Ne ho pure parlato e scritto: nelle “Memorie”, ma anche altrove. Intendiamoci. Io non sono Calvino. Uno che gli basta un aggettivo, “autarchica”, perché torni alla mente un’era, e si sa com’è finita. Ma vi sono figure, nel racconto di Calvino, che somigliano alle mie. Il ricordo del padre, ad esempio, l’attaccamento alla terra di entrambi, uguale ma anche diverso. Il papà di Calvino era un agronomo, in larga parte vissuto nel Messico, dove aveva sperimentato nuove forme di coltura. Tornato in Italia, aveva tentato di importare nuovi metodi in Liguria, a Sanremo, nella sua campagna, la sua terra, non solo perché lì era nato, ma perché quel “sua” esprimeva una idea di proprietà e di possesso, propria di chi non solo sperimenta, ma coltiva la terra, quasi con le sue mani, senza manenti né giornalieri.
Anche mio padre, di tutt’altro mestiere, ma famiglia contadina, coltivava la terra (per noi erano i “fondi”o, più semplicemente, i “giardini”) con le sue mani e le braccia possenti: potava (due volte all’anno), faceva innesti (per propagare o rinnovare la vegetazione), irrorava (con l’acqua del canale collegato alla peschiera), piegava (questo non ho mai capito che fosse: forse raddrizzava i rami verso il sole), alla fine, quando era tempo, raccoglieva i frutti (con la mano per non sciuparli) delle piante di limone.
Con tutto questo, si capisce perché mio padre considerava la terra come sua: i limoni erano opera sua, quando li coglieva, era come si staccasse da una sua creatura; anche quando li vendeva, e pure costituivano parte importante del suo reddito che, per il resto, era quello di un maestro elementare.
Anche mio padre aveva le sue strade, ma erano obbligate, e si percorrevano entrambe a piedi: la prima, più breve, una scalinata stretta, e saliva su in collina, dov’era il “Monte”, il primo dei due fondi. L’altra, molto più lunga, per molta parte aperta e percorsa dalle macchine, ma finiva anch’essa con una scalinata, meno ripida dell’altra ma più lunga, e portava a “Marito”, il secondo dei due.
Anche mio padre, come il papà di Calvino, non tornava mai dalle sue peregrinazioni con le mani vuote, ma piene, piene le tasche, piena la cesta di limoni, ma anche di frutta e verdura. A casa mia non mancavano mai i limoni, sempre tenuti in gran pregio da mia madre, che ne faceva largo uso, ma anche dalle vicine, nonna Assunta, quella del pesce fritto all’aperto attorniata da uno stuolo di gatti, e la comare triste per la morte del figlio assassinato da mano ignota. Come non mancavano mai le “festelle”, così chiamavano i fior di fico, o le “granate”, come venivano chiamati i frutti del melograno appena maturi. E non mancavano infine i prodotti della terra terra, quelli del piccolo spiazzo adiacente il casolare, poco meno di un’aia esposta al sole, dove venivano coltivate o sorgevano spontaneamente cicorie di campo e zucche gialle.
A differenza del papà di Calvino, mio padre non amava la caccia, odiava le armi, l’unica che gli conoscessi era un vecchio fucile arrugginito che forse non aveva mai usato. Sapeva però, proprio per via dei frequenti contatti con la natura, anche animale, distinguere una “fucetola” (così veniva chiamato il beccafico) da un codirosso, un cane da una volpe canina. Né le differenze si fermano qui. Perché mio padre non ha avuto nei confronti dei figli, quanto meno non ci ha fatto avvertire, il contrasto che nasceva dal suo attaccamento alla terra e il nostro sentirci attratti dai libri, dagli studi di allora, il ginnasio e il liceo. Solo col primo dei maschi mio padre avrà fatto sentire la sua voce, quando all’Università gli ha fatto scegliere Chimica, un amore per le scienze esatte, che era suo, non del figlio, e fece una brutta fine. Per il resto ci ha fatto fare, ciascuno come voleva, e nulla ci ha imposto, non l’amore per la terra, né altro. Così come non ci ha fatto avvertire il trapasso, la fine di un’era, e l‘inizio di un’altra. Questo per quanto riguarda la fine dell’era contadina, perché, per quanto riguarda l’altra, quella del regime, lui che era socialista, da sempre sulla sponda opposta a quella fascista, non poteva non augurarsi la fine, non poteva non trasmettere ai figli l’idea e il senso del trapasso.
Per quanto riguarda, infine, il contrasto nelle cose, tra la campagna contadina, fatta di fondi e casolari sparsi, ancora con la stalla e il fienile, e la campagna trasformata dal cemento in villette residenziali per i ricchi, si ricordi che qui si parla di Sanremo, e questo contrasto, se poteva apparire evidente ai tempi del giovane Calvino, non lo era ancora nella terra amalfitana, la terra di mio padre, la terra mia.
Lì, sulla costa amalfitana, le prime ville in campagna per i ricchi sono sorte non prima degli anni ’60 del secolo scorso. Lo scempio, che ha trasformato la costiera in modo da rendere irriconoscibili intere contrade, l’intera costa, quello scempio è iniziato dopo, dopo Sanremo, è proseguito per anni, dura tuttora. Così, con questi ricordi, con questi rimpianti si conclude anche la visitazione, suggerita da “La strada di San Giovanni”,
di un tempo irrimediabilmente passato, lo era per Calvino, lo è per me che scrivo.
Italo Calvino è morto nel 1985, a 62 anni. Morto nel pieno
della sua attività mentre scriveva “Lezioni americane”, per un ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere ad Harvard, negli Stati Uniti, e sono state pubblicate postume. Italo Calvino è stato un grande della letteratura, e ha lasciato una miriade di libri, racconti, romanzi e saggi che percorrono le tappe tutte della narrativa italiana nel tempo che ha vissuto, dal neorealismo all’onirico, al fiabesco, al postmoderno. Racconti e romanzi capaci di suscitare emozioni sempre nuove, come il racconto di San Giovanni dal quale siamo partiti.
E qui c’è la prima contrapposizione, che appare vissuta da Calvino come un contrasto tra mondi diversi, quello contadino, e quello già sognato fin da bambino. Ma questo è il racconto che lo scrittore fa ex post, alla luce delle esperienze che ne faranno un autore tra i più famosi della letteratura del novecento italiano: perché la vita contadina gli sarà apparsa, allora e anche dopo, come un fatto oppressivo (portar le ceste addosso), tutto il contrario della vita sognata e poi realizzata da Calvino, una contrapposizione, che non è solo un conflitto tra generazioni, ma un conflitto di idee, tra padre e figlio.
L’uno, il padre, che appare dal racconto come un giramondo, rintanato nella sua terra, secondo una sua visione della proprietà e del possesso, non propriamente del contadino, ma di chiunque sia attaccato alla terra come fonte di vita. E tale l’avrà considerata il padre, che aveva realmente girato mezzo mondo, dall’America all’Africa, dal Messico alla Tripolitania, per tornare alla terra, la sua terra, per coltivarla direttamente (raramente si serviva di manenti o giornalieri), trasformarla, sentirla come sua.
L’altro, il figlio, che portava sì le ceste (ma questo lo faceva anche il padre: non tornava mai a mani vuote), ma della terra non gli importava niente, non conosceva il nome delle piante, non era in grado di distinguere una pianta dall’altra, per me le cose erano mute (ma non ci credo), il giovane Calvino amava la città, il mondo cittadino, già presentiva che la sua vita sarebbe stata attaccata alle lettere e all’arte.
*Magistrato in pensione e scrittore