Governo contro Magistratura per “l’Albania” e, che si fa? Si fa polemica politica, ma non è il caso di rifarsi alla storia dell’Emigrazione anche italiana ed ai valori umani verso i più deboli?


Qui di seguito pubblichiamo una riflessione del magistrato in pensione, Michele Di Lieto, sul decreto di rigetto del giudice di Roma relativamente agli emigranti trasferiti in Albania, che riguardano il Bangladesh, nega i diritti agli omosessuali o l’Egitto, che consente atti di violenza, persino rapimenti e omicidi (caso Regeni docet) nei confronti di oppositori politici.
Michele Di Lieto, conclude la sua riflessione domandandosi: ai governanti non è lecito chiedere di occuparsi di una seria riforma fiscale, piuttosto che di migranti?

L’Italia è un Paese che dall’indomani del periodo della dittatura fascista ha cercato di garantire  l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione scritta, proprio evitare le stravaganze del fascismo.
Una analisi del fenomeno migratorio alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e della giurisprudenza italiana. Paesi “sicuri”  e “non sicuri”. Valore degli “elenchi”: non eliminano  il diritto-dovere del giudice di accertare se un Paese sia o meno “sicuro”. Procedure accelerate: sacrificano diritti fondamentali come il diritto di asilo, o il diritto di difesa, ledono la dignità delle persone, e non sembrano in grado di ridurre l’estensione dei “flussi” migratori. “Il fenomeno migratorio è un fenomeno inarrestabile, e tale resterà sino a che esisteranno Paesi ricchi e Paesi poveri. E’ qui che bisognerebbe intervenire, anche all’interno dei singoli paesi, per ridurre, non eliminare queste differenze. I sistemi ci sono, e lo sanno i nostri governanti. Ai quali è lecito chiedere di occuparsi di una seria riforma fiscale, piuttosto che di migranti, e di come allontanarli, o trasportarli altrove, come se fossero pacchi di rifiuti e non persone”.
Con decreto 16.10.2024 il Questore di Roma ha ordinato il  “trattenimento”  di  dodici immigrati (originari dell’Egitto e del Bangladesh) già condotti in Albania, in uno dei centri di permanenza a ciò destinati in base ad accordi intercorsi fra i due Paesi, per essere sottoposti alle procedure accelerate previste per coloro che abbiano fatto richiesta di asilo, procedure che presuppongono una detenzione, detta appunto detenzione amministrativa, e preludono generalmente al rimpatrio dei migranti. Questo provvedimento non è stato convalidato dal Tribunale di Roma, Sezione civile specializzata in materia di immigrazione, che ha ordinato, con decreto 18.10.2024, la liberazione dei migranti e disposto il loro rientro in Italia. La ragione del contendere (se così si può dire del contrasto tra l’autorità amministrativa e l’autorità giudiziaria) consiste in ciò: che, essendo il rimpatrio (che chiude generalmente le procedure accelerate) previsto solo in Paesi “sicuri”, il Tribunale ha considerato “insicuri” l’Egitto e il Bangladesh, che al Questore erano apparsi “sicuri”. Ora, a parte i bisticci verbali, la decisione del Tribunale di Roma è una decisione che può rimettere in gioco la politica migratoria messa in atto dal governo Meloni: la stragrande maggioranza dei migranti che cercano di arrivare in Italia via mare proviene da paesi che difficilmente possono essere definiti «sicuri». Se questo è vero, ne viene ridotto l’ambito di applicazione di una procedura accelerata contro la quale si erano già levate voci di dissenso per le restrizione di diritti in capo al migrante che chieda di esercitare il diritto di asilo. Ma non è la prima decisione dell’autorità giudiziaria che metta in discussione  un provvedimento amministrativo (non a caso è previsto un potere generale di disapplicazione spettante all’autorità giudiziaria); e comunque  non giustifica le reazioni e le polemiche che ne sono seguite. Perché il Tribunale di Roma ha recepito l’indirizzo segnato dalla Corte di giustizia europea con sentenza 4.10.2024 (anticipata in Italia dalla Cassazione a sezioni unite con sentenza n.11399 del 9 aprile 2024) secondo la quale esiste un diritto-dovere dell’autorità giudiziaria di accertare al momento della decisione, a prescindere da qualsiasi elenco, se esistano (o permangano) le condizioni per attribuire al Paese di origine la qualifica di Paese “sicuro”: e tale non può considerarsi, secondo la Corte europea, il Paese che garantisca sicurezza solo in alcune non in tutte le parti del suo territorio. A questa deroga, che può definirsi territoriale, il Tribunale di Roma ne ha aggiunto un’altra, che può dirsi soggettiva,  per quei paesi, come l’Egitto e il Bangladesh, che non garantiscano sicurezza per determinate categorie di persone, attingendo sotto questo profilo elementi di prova dagli stessi atti amministrativi prodotti per l’aggiornamento degli elenchi (schede-allegate alle relazioni che definivano entrambi i paesi, Egitto e Bangladesh, sicuri con alcune eccezioni per “determinate categorie di persone”). Il decreto di rigetto è un provvedimento complesso, come è complessa la materia affrontata. Si fonda, oltre che sulla disamina accurata di norme e sentenze, su molto buon senso. Non si capisce, o si capisce fin troppo bene, perché l’autorità amministrativa (nel nostro caso il Ministro delegato ad aggiornare l’elenco dei Paesi sicuri) essendo in possesso di elementi (informazioni sul paese di origine) che indicavano i due Paesi in questione non completamente sicuri abbia insistito, e ancora insista, per inserire nell’elenco  il Bangladesh che nega diritti agli omosessuali, o l’Egitto, che consente atti di violenza, persino rapimenti e omicidi (caso Regeni docet)  nei confronti di oppositori politici. Il Tribunale, che ha ritenuto insicuri i paesi in questione e ha negato la convalida al provvedimento che li considerava tali ha fatto, secondo me, opera di giustizia, e non merita censure. Invece no. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto: “Reagiremo” e ha convocato un Consiglio dei ministri di urgenza per varare un decreto legge che sostituisse il decreto interministeriale sui Paesi sicuri, nel convincimento che la nuova forma del provvedimento (da norma secondaria a norma primaria) valesse a scongiurare ulteriori analoghi provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Così non è stato. Intanto, perché il Governo Meloni non ha modificato la sua linea di condotta, rinnovando il trasporto in Albania dei migranti soccorsi a mare, ritenendo evidentemente di aver tutto sanato col decreto legge. Inoltre perché altri giudici italiani, chiamati  a decidere analoghe questioni, hanno sospeso l’efficacia esecutiva del “trattenimento” amministrativo: solo che, invece di disapplicare la norma varata con decreto legge, hanno deciso di rivolgersi alla stessa Corte europea perché dirimesse ogni dubbio sui paesi “sicuri” e “non sicuri”. Indirizzo, quest’ultimo, seguito dallo stesso Tribunale di Roma che, con decreto 11.11. 2024, ha sospeso l’efficacia del provvedimento adottato dal Questore nei confronti di sette migranti, anch’essi provenienti dall’Egitto e dal Bangladesh, già condotti e sbarcati in Albania, ne ha ordinato la liberazione e ha rinviato alla Corte di Giustizia europea perché decidesse definitivamente non solo la questione: “paesi sicuri o insicuri”, ma anche altre questioni altrettanto rilevanti (come ad esempio la possibilità di disapplicare anche di ufficio la norma di legge intervenuta nel frattempo quando essa appaia in contrasto col diritto comunitario). Orbene, in questo groviglio di norme, provvedimenti, sentenze, decreti, viaggi di andata e ritorno dall’Albania per i migranti “trattenuti” e poi liberati, non è mancata, e non poteva mancare, la voce della stampa. Sopratutto quella di destra, e fin dal primo decreto del Tribunale di Roma, quello del 18.10.2024,  che non convalidava il “trattenimento” disposto dall’autorità amministrativa. I primi commenti (vedi Il Giornale del 23.10.2024) non facevano altro che parlare di “battaglia”, “tempesta”, “scontro fra poteri”, aderendo alla tesi, sostenuta dal governo, che accusava, e accusa, la magistratura (non tutta, solo quella “politicizzata”, evidentemente anche quella romana) di orientare le proprie decisioni a senso unico, quello dell’opposizione, travalicando i poteri dell’autorità giudiziaria. A me pare che le reazioni della stampa (ripeto: di destra, ma la stampa è quasi tutta di destra) al provvedimento del giudice romano siano quanto meno esagerate. Il Tribunale aveva emesso un decreto, atto giurisdizionale soggetto a impugnazione. Fosse o meno corretto il decreto,  fondato (ma solo parzialmente) sulla sentenza della Corte di giustizia europea,  si trattava di un atto giurisdizionale che poteva essere, ed è stato impugnato con ricorso per cassazione. Bastava attendere che la giustizia, come si dice, facesse il suo corso. Sarà pure lento, ma è la lentezza che affligge qualsiasi ricorso, di qualsiasi cittadino, di qualsiasi ente, anche quello governativo (senza considerare che la stessa Corte suprema, investita di questioni strettamente connesse dallo stesso Tribunale romano, aveva già fissato l’udienza del 4.12.2024). A parte ogni altra considerazione, l’aspetto preoccupante della vertenza nasce da ciò: che il Governo, sottolineando il carattere politico, anzi di “alta politica”(Nordio) della questione, sembra rivendicare una immunità da ogni controllo, varando un decreto legge per togliere al giudice la possibilità di decidere in futuro la stessa questione (sbagliando, potendo il giudice disapplicare anche il decreto legge, se questo appaia in contrasto con norme comunitarie) ma anche per affermare la propria superiorità su un altro potere dello Stato, che gode e deve godere di prestigio e autorevolezza almeno pari a quella dell’esecutivo.
Ora, tutti questi aspetti che sono accomunati dalla stampa sotto il titolo di scontro fra poteri, attengono non a questioni di scarsa importanza, ma a  diritti fondamentali della vita del migrante. Sui quali non mi pare superfluo spendere qualche riga. Diritto di asilo. E’ un istituto di origini antichissime, che riconosce ad ogni individuo “il diritto di cercare e godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), al quale è dedicato l’art.10 della nostra Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Come appare evidente dall’autorevolezza delle fonti, si tratta di un diritto fondamentale, che non può essere compresso dall’autorità amministrativa, essendo la procedura di riconoscimento del diritto di asilo riservata in ultima analisi all’autorità giudiziaria. Occorre però sottolineare come lo stesso diritto di asilo si è modificato nel corso degli anni, a partire dal 1948, anno al quale risalgono entrambi i testi fondamentali sopra citati (Dichiarazione universale e Costituzione italiana).
Nel 1948 il diritto di asilo veniva richiesto e concesso a singole persone o a gruppi limitati di persone, soprattutto quando veniva invocato per motivi politici (per un certo tempo si è parlato del diritto di asilo come od esclusivamente come diritto di asilo politico: questa nozione non basta e non serve più quando si verifichi un afflusso massiccio di sfollati in fuga da eventi eccezionali, come la guerra. E’ quello che si è verificato in Ucraina in seguito al conflitto Russia-Ucraina, quando milioni di persone hanno abbandonato il paese di origine e si sono rifugiati in paesi non necessariamente vicini (Polonia. Germania, Repubblica ceca, ma anche l’Italia), e si è fatto ricorso a sistemi di “protezione temporanea” proprio per evitare il collasso del sistema di asilo in situazioni di particolare emergenza. Protezione temporanea. Trova la sua base normativa in una direttiva CE (la n. 55 del 2001), che prendeva atto dei conflitti scoppiati negli anni ’90 in tutta Europa, e dell’esodo massiccio che le guerre avevano provocato, per introdurre un sistema di protezione più rapido ed efficiente in caso di emergenza. La direttiva tuttavia non era mai stata attuata prima del conflitto russo ucraino. Scoppiato il conflitto si decise invece di attuarla per dare ingresso a norme minime comuni a tutti gli Stati europei, sulla base di principi di solidarietà tra paesi ospitanti e soggetti ospitati, tra paesi e paesi per l’equa ripartizione degli oneri relativi. Sempre sulla base della direttiva veniva previsto l’obbligo per gli Stati di accoglienza di rilasciare un visto di soggiorno, la durata del quale, prevista  per un anno, è stata più volte prorogata, e continua ad essere prorogata (l’emergenza, cioè la guerra, non è cessata). Non è stata però la protezione “temporanea” l’unico strappo al diritto di asilo già modificato prima degli anni 2.000, perché la gestione normativa della politica migratoria ha subito negli ultimi tempi modifiche ancor più radicali, caratterizzate da una contrazione generalizzata del diritto di asilo, e dall’introduzione di procedure speciali che, nell’intento del legislatore, dovrebbero contribuire a ridurre la portata del fenomeno migratorio e a comprimere il diritto di asilo. Mi riferisco alle procedure “accelerate” delle quali mi accingo qui a parlare. Procedure “accelerate”: sono essenzialmente due. La prima è la procedura cd. di frontiera, introdotta per il migrante che presenti domanda di asilo direttamente alla frontiera, e sia stato fermato per avere eluso, o tentato di eludere i relativi controlli. In questo caso, la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera. La seconda, che è  quella che qui interessa, e ha dato luogo al decreto del Tribunale di Roma con tutto quello che ne è seguito, è prevista per i migranti provenienti da Paesi “sicuri”, come tali indicati da decreti interministeriali soggetti a continuo aggiornamento. La procedura accelerata consente che la domanda di asilo venga esaminata con carattere prioritario:  ma basta che il paese di origine sia compreso nell’elenco dei paesi sicuri perché la domanda sia respinta per manifesta infondatezza. Basterebbe questa norma per dubitare della legittimità dell’intera procedura. Che lede diritti fondamentali, come quello di libertà connesso al diritto di asilo, o quello a una difesa effettiva, minato alla base dai termini brevi, brevissimi, concessi al difensore che voglia impugnare il provvedimento di rigetto della domanda di asilo, il ricorso (o reclamo) dinanzi al giudice ordinario non avendo efficacia sospensiva. Vero è che tutta la normativa che si è succeduta in materia (qualcuno ha parlato di “bulimia” e ha contato i provvedimenti: sono sedici o diciassette negli ultimi due anni) e l’estrema rapidità delle procedure “accelerate” mira ad arrestare i flussi migratori che hanno assunto, questi sì, un carattere abnorme, incontrollabile e incontrollato. Ma non saranno le procedure “accelerate” a sacrificare diritti fondamentali dell’individuo, anche se migrante, per giunta incensurato. Il fenomeno migratorio, l’ho detto anche altrove,  è un fenomeno inarrestabile, e tale resterà fino a che esisteranno Paesi ricchi e Paesi poveri. E’ qui che bisognerebbe intervenire, anche all’interno dei singoli paesi, per ridurre, non eliminare queste differenze. I sistemi ci sono, e lo sanno i nostri governanti. Ai quali è lecito chiedere di occuparsi di una seria riforma fiscale, piuttosto che di migranti, e di come allontanarli, o trasportarli altrove, come se fossero pacchi di rifiuti e non persone.

 

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