Il nuovo libro del giudice Di Lieto, è un romanzo che tocca il cuore, parte da Abdullah e finisce all’analisi dei ricordi personali e della società, in un certo senso malata

“Abdullah migrante nero. Storia breve di una coppia mista” è l’ultimo romanzo del giudice Michele Di Lieto. Un magistrato votato alla scrittura, è mio amico di vecchia data, collaboratore de “Il Sud” da che il giornale è uscito, in edizione cartacea, e ha pubblicato di tutto: articoli di giornale, note a sentenza, memorie, romanzi, saggi. Negli ultimi tempi si è dedicato all’attualità, fondendo assieme “sociale” e “politico”, e pubblicando una serie di libri, anno per anno, un vero e proprio ciclo, fatto di ricordi, commenti, analisi non sempre scontate, suggestioni, previsioni quasi sempre azzeccate, giudizi severi ma non troppo (l’Autore, è lui che lo dice, sa pure sorridere). Abdullah migrante nero segna, a mio avviso, un ritorno all’antico. L’autore non è d’accordo. A me sembra invece che ci sia molto dei suoi libri iniziali, che rappresentavano già allora un modello di scrittura, soprattutto per la forma sorretta da uno stile autentico e originale, sempre accompagnato da sottile ironia.  Quello stile, quella ironia che, sia pure con qualche variazione, si ritrovano in questo ultimo libro. Un altro profilo che ci trova dissenzienti, me e l’autore, è quello che concerne l’autobiografia. L’autore stesso però deve ammettere che “il passato non si cancella, il passato non si sprezza”, che ogni romanzo, o quello che romanzo appare, è autobiografia. Un ultimo esempio del passato, più recente ma passato, è quella combinazione tra saggio e narrativa che risente, a mio avviso, delle esperienze acquisite da Michele Di Lieto coi libri del ciclo cd. “politico”, dove il saggio prevale sulla narrativa, mentre qui, nel romanzo, avviene esattamente il contrario, con un poco di saggio, molto più di narrativa.
Una ultima notazione, riguarda il linguaggio, sul quale pure l’Autore si sofferma nella Intervista, e trova tutti di accordo, anche chi scrive. Il linguaggio, l’uso del linguaggio, che fonde assieme voci italiane e locuzioni dialettali, italiano e latino, italiano e francese, il linguaggio così, che appare già nei primi scritti, in questo romanzo raggiunge (o quasi) la perfezione.
Non voglio aggiungere altro, per non privare il lettore del piacere di leggere il libro, con la prefazione del prof. Giovanni Squame, già presidente del Consiglio Comunale di Napoli e attuale Presidente ALI (AerospaceLaboratory for Innovative components); di seguito l’intervista finale al giudice Michele Di Lieto, che qui viene pubblicata estratto.

Intervista a Michele Di Lieto

Caro il mio giudice, complimenti.  Con l’età che porta, uscire con un nuovo libro se non è una impresa poco ci manca. Complimenti. Facciamo come in Tv, nonostante siamo amici e ci parliamo con il tu, nell’intervista utilizziamo il lei.    
La ringrazio. Certo che alla mia età, ottantaquattro sono gli anni che porto, avere un altro libro pronto da stampare, non è cosa facile. Mi aiuta la passione per la scrittura, ma costa fatica.
Il romanzo ”Abdullah migrante nero” è sembrato a me un ritorno all’antico. E’ esatto?
Un ritorno all’antico forse no. E’ vero che all’inizio ho pubblicato più di un romanzo, e che la serie si è interrotta col ciclo, un volume all’anno, dedicato a fatti più propriamente “politici”. Ma “Abdullah migrante nero”,  pur essendo un romanzo,  presenta novità rispetto a prima.
Quali?
La trama: non ha niente di autobiografico. Le questioni affrontate: sono tante che, a volerle trattare una per una, ne verrebbe fuori un libraccio. Lo stile, col ricorso al discorso diretto mai usato in maniera così vistosa. Ma sono solo alcune delle novità di questo libro.
Giudice caro, è’ proprio sicuro che il romanzo non faccia autobiografia? Ma il romanzo non è la storia di una malattia? E lei, lei che scrive, non ha sofferto di crisi depressive?
Sì, è vero. Ma la depressione della protagonista è tutt’altra cosa: per origine (traumatica), per i tempi (che hanno inizio dalla prima adolescenza), per gli sviluppi (via via più gravi, per altri traumi della vita), per la fine (suicidio  della protagonista). La sindrome depressiva che ho sofferto io è tutt’affatto diversa: non ha origine traumatica, non ha avuto inizio dalla prima adolescenza, ha avuto sviluppi assai più lenti e infine, a 84 anni, sono ancora vivo.
Caro Giudice, in questo romanzo c’è ancora qualcosa di vecchio, del vecchio ciclo. O mi sbaglio?
Non si sbaglia. Rimane sempre in chi scrive traccia del passato. Il passato non si cancella, il passato non si sprezza..
Torniamo ad Abdullah. Può dirci qualcosa di più sulla trama?
Sarò breve, Il romanzo si fonda su due storie, legate l’una all’altra. La prima è quella del migrante, alle prese coi mille problemi nascenti dalla lingua, dalla religione, dagli usi e costumi di un paese che non conosci, e può esserti ostile. La seconda, lo ha detto Lei,  è la storia di una malattia, la depressione, che nasce da un trauma, accompagna chi ne soffre per tutta la vita e porta al suicidio. Le due storie sono talmente intrecciate che non è facile dire quale è la prima, quale la seconda. Giovanni Squame, che ha steso la prefazione, dà la preferenza alla vicenda umana della depressa. Ma non ha importanza.
Due le storie, due i protagonisti. Esistono altre storie?
Certo che sì. Accanto alle storie principali, ruotano nel romanzo storie per così dire minori, che nell’economia del romanzo hanno la stessa importanza delle prime
Ce ne può indicare qualcuna?
 Scelgo a caso. La storia del trauma, violenza padre-figlia, che provoca la depressione, e si conclude col suicidio dei protagonisti. Dico: protagonisti perché muoiono tutti e due, padre e figlia: tutti e due suicidi. Poi c’è la storia matrimoniale dell’uomo che si sposa per amore, e della donna che lo sposa perché ricco. Con quella mania di danaro che affligge la donna maritata e viene seguita  dall’inizio (“era meno cara”: la taverna del pranzo nuziale) alla fine (“avrebbero fatto tutto gratis”: all’ospedale che avrebbe dovuto curarla). A me è piaciuta. Spero che piaccia anche ai lettori, quei pochi o quei tanti che mi avranno seguito.
Non vorrei apparire il bastian contrario della situazione. Ho un altro appunto pronto.
Dica, dica. Mi incuriosisce.
C’è nel romanzo qualche fatto che troppo somiglia a fatti recenti realmente accaduti. Parlo della febbre Q, che richiama la pandemia,  del naufragio che ricorda la Costa Concordia e l’isola del Giglio, “quella vera, non quella che le somiglia”. E’ un artificio voluto, o le è scappato di mano?
No, no, non mi è scappato di mano. Tutto il libro è cosparso di cose che accostano il vecchio al nuovo, il nuovo al vecchio. Un tentativo di riportare alla memoria fatti che potevano servire da esempio. E più l’esempio mi pareva significativo, più mi veniva spontaneo ricorrere a particolari che ravvivassero la memoria. La febbre Q e la pandemia. Certo che si somigliano. E qui si tratta di un fatto così recente che non può né deve essere dimenticato. Il naufragio e l’isola del Giglio. Non ci voleva molto a cambiare il nome dell’isola, il luogo del naufragio. Sono stato io a mantenere invariato il nome dell’isola perché tutti ricordassero la Costa Concordia, trentadue morti, uno degli incidenti più gravi della marina italiana. Tutto voluto, quindi.  La cosa può piacere o non piacere. Io spero che piaccia.
Carissimo Giudice, nella sua poliedrica attività di scrittore, Lei ha affrontato tanti problemi. Non una volta sola, ma più volte, in libri diversi. Non teme di essere ripetitivo?
No, non sono ripetitivo. Lo stesso problema viene sempre trattato sotto un profilo diverso, non foss’altro per notare che il fenomeno è rimasto invariato, nessuno ci ha messo mano. Prendiamo gli infortuni sul lavoro, le morti bianche che io chiamo rosse, dal sangue degli innocenti. E sono spesso migranti, anche neri, chiamati a soccorrere la nostra economia. C’è voluta la tragedia di Latina, del migrante indiano lasciato morire dissanguato, perché il caso esplodesse. Solo per qualche giorno, gli incidenti si susseguono tali e quali. Leggo tra i titoli del TG: “quattro morti in 48 ore”. Non è il primo titolo fatto così. Temo che non sia neppure l’ultimo.
Morti, sempre morti. Perché questo umor nero?
Esatto: umor nero. E’ uno dei sintomi della depressione “minore” che mi affligge. Fortuna che non sia continua, non sia oppressiva. Io so anche sorridere. Sorrido sempre quando guardo alla televisione le trasmissioni “serie”, con l’ospite, per fortuna non sempre lo stesso, e il libro pronto da presentare. Ma che avrà di nuovo il libro del giornalista scrittore? E non gli basta che il libro sia pubblicato dall’editore famoso, presentato dall’autore altrettanto famoso, quello stesso che è venuto il giorno prima o verrà il giorno dopo col suo libro, presentato dall’altro. Si scambiano il ruolo.
Torniamo all’inizio. Due sono le storie del romanzo: quella del migrante e quella della malattia. Vorrei si fermasse qui con me sulla prima. Sulle origini, sulle cause, sui rimedi alle migrazioni.
Mi porto indietro. Per parlare delle migrazioni, e istituire un confronto tra il vecchio e il nuovo, tra migrazioni recenti e quelle più antiche. Elemento che accomuna le une e le altre è l’aspirazione di chi emigra a una vita migliore. Causa comune ad entrambe è la povertà del paese di origine. Nei primi anni ’30, i migranti meridionali che si trasferivano negli Stati Uniti erano tutti poveri cristi, attratti dal miraggio di una vita diversa in un mondo diverso, il Nuovo Mondo, pronti ad affrontare qualsiasi rischio, anche la perdita di libertà connessa allo schiavismo. Perché di schiavismo si tratta. Anche oggi, e per tutti gli anni del ventunesimo secolo, i migranti africani che si trasferiscono dal sud al nord del pianeta, sono poveri cristi, attratti dal miraggio di una vita migliore, pronti ad affrontare qualsiasi rischio, anche lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che, se non è schiavismo, poco ci manca.  Così l’Italia, da paese di migranti, è diventato un paese di immigrati. Coi loro problemi che diventano anche i nostri
E come li si affronta?
Piano, piano, andiamo per gradi. Due sono le scuole di pensiero che si contendono il campo: l’una che predica la solidarietà, l’accoglienza, l’ospitalità, l’altra che attua la violenza in nome della sicurezza, dell’ordine pubblico, del diritto alla vita, che è nostro prima che degli altri. Vengono a confronto il diritto di emigrare, che non è più solo del povero cristo affamato, ma sempre più spesso di gente che fugge via da una guerra, da violenze e persecuzioni, da “evacuazioni” forzate, e il diritto-dovere degli Stati di difendere i propri confini, e garantire ordine e sicurezza ai propri cittadini in base al principio: vengono prima loro, poi gli stranieri immigrati.
E Lei da che parte sta?
Dalla prima, pare evidente, quella dell’accoglienza. Ma il problema è grave, gravissimo, e non basta a risolverlo l’ecatombe di migranti nel Mediterraneo, prima ancora che si affaccino alla terra del sogno, non basta il richiamo agli effetti positivi delle migrazioni sulla denatalità e, più in generale, sull’economia del Paese (speriamo che il lavoro dei migranti non sia sempre e solo quello in nero), non bastano le parole del Papa, che nessuno più sembra sentire.
Passiamo a domande più personali.
Dica, dica.
Lei ha fatto il magistrato fino all’alba del 2000, poi è passato alla scrittura. Perché lo ha fatto? E’ contento della scelta?
Sono due le domande. Parto dalla prima. Perché l’ho fatto? L’ho fatto perché l’arte del magistrato non mi è mai piaciuta. Non è raro il caso che si abbracci una professione senza amarla. A parte questo, decisivo è stato un senso di sfiducia nelle istituzioni, nella giustizia in particolare. Ho sempre ritenuto che la scritta: la legge è uguale per tutti fosse uno specchietto per le allodole. Anche questo è un tema affrontato nel romanzo, proprio nell’ultimo capitolo, quando parlo del contrasto tra il principe del foro e il principiante dotto. Non dovrebbe influenzare la decisione, ma è sicuro? E, qui passo alla seconda domanda: se sono contento della scelta? Certo che sì. Sapevo scrivere. Ho sempre saputo scrivere. Per questo ho scelto la scrittura. Anche se molti, Lei per primo, mi chiama ancora Giudice, ignorando volutamente che da tempo ho smesso la toga per la penna. Non nascondo che mi sarei atteso qualcosa di più anche dalla scrittura, una sorta di onorificenza come quella di Grande Ufficiale che mi è stata conferita con decreto presidenziale 2 giugno 2000, per l’attività di prima, non quella del dopo. Fa niente. Non si sa mai, il successo potrebbe anche arridere all’ultimo arrivato, al romanzo pronto per la stampa: “Abdullah migrante nero”.  Chi sa che il nero non porti fortuna.
Ultima, ultimissima domanda. Perché ha fatto ricorso al fai da te, all’auto pubblicazione?
Ultima, ultimissima risposta. Lo avevo già fatto in passato, una sola volta. Senza Internet. E senza Editore. E’ un sistema che costa fatica, ma ti dà la possibilità di seguire passo passo tutto il percorso, dalla correzione delle bozze alla copertina, in modo che tu possa dire: è opera mia.  Questo è il motivo. Non ce n’è altri.
Giudice caro, grazie, grazie. Le faccio tanti auguri. Auguri anche al libro. Per cent’anni, e tanti libri ancora.
Grazie, grazie a Lei per l’intervista. La ringrazio per i cent’anni, non per i libri. Scrivere oggi mi costa fatica. Certamente non avrò forza per un altro libro. Forse non avrò forza neppure per i cent’ anni che mi ha augurato. Ma oggi siamo tutti candidati centenari, oltre i cento no, sarebbe un eccesso. Grazie, grazie di cuore.

Nicola Nigro

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