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Tortura e sovraffollamento nelle carceri:
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due facce della stessa medaglia.
di Michele Di Lieto*
La “tortura” è entrata nell’ordinamento italiano come reato autonomo con legge n.110 del 2017. A seguito di un iter parlamentare particolarmente tormentato, nonostante l’inerzia protratta per quasi trent’anni dalla ratifica (1988) della Convenzione ONU del 1984, che prevedeva espressamente l’obbligo del legislatore interno di intervenire con norme sue proprie, e nonostante le sentenze di condanna dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) per violazione dell’obbligo stesso. L’art. 613 bis, introdotto nel codice penale per colmare questa lacuna, punisce “chiunque” (non si tratta quindi di un reato proprio al pubblico ufficiale, al quale è riservata una aggravante) compie atti di crudeltà, inumani e degradanti per la dignità della persona e cagiona lesioni psico-fisiche a soggetti privati della libertà personale o comunque affidati alla sua custodia (mi sono astenuto dal riprodurre la lettera della legge niente affatto semplice e da più parti criticata). Mi occupo qui della tortura e delle innovazioni normative perché il fenomeno è assurto agli onori della cronaca (nera) solo in seguito alla indagine della Procura di Trapani che ha portato agli arresti domiciliari di undici agenti della polizia penitenziaria, alla sospensione di altri quattordici agenti, accusati, appunto, di torture protratte per anni, oggi documentate dalle telecamere di sorveglianza e da intercettazioni telefoniche, oltre che dalle deposizioni testimoniali delle vittime o vicini di cella.
Si tratta di episodi di estrema violenza, che hanno fatto parlare di “inferno dantesco” o di “carcere dell’orrore”, sui quali volutamente non mi soffermo per non alimentare curiosità morbose, come purtroppo fanno alcuni, anche accreditati (sic!) organi di stampa. Ma hanno avuto il merito di portare alla luce fatti analoghi verificatisi altrove e processi per “tortura” instaurati un po’ dappertutto in Italia, alcuni già definiti con sentenza di primo grado, altri ancora in fase istruttoria. Non tutti, ma in gran parte, questi episodi denunciano mancanza assoluta di rispetto della persona, mancanza del senso di legalità, tanto più grave quando provenga da chi dovrebbe garantirla, assenza di dignità (di se stessi prima che delle vittime), carenza dei principi di civiltà che stanno alla base della nuova figura di reato.
La verità è che non è facile far penetrare nella mente di operatori abituati da sempre a trattare i detenuti come cose, non come persone, i nuovi precetti che obbediscono ad esigenze morali prima che giuridiche. Mi è capitato, leggendo l’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che si batte da anni per affermare i diritti dell’uomo come persona, di restare senza fiato per due episodi di violenza usata come ritorsione contro detenuti che avevano protestato per le restrizioni adottate in occasione della pandemia. Una vendetta postuma, eseguita il giorno successivo alle proteste. Ma, a proposito di pandemia, e dei disordini che si verificarono nell’aprile del 2020 in tutte le carceri italiane, occorre qui che mi soffermi su un altro aspetto della situazione di “sfascio” del nostro sistema carcerario e, più in generale, della nostra giustizia. Parlo di “sfascio” per denunciare lo stato miserevole in cui versano i detenuti e, assieme a loro, gli agenti di polizia penitenziaria. Mi riferisco, in particolare, al sovraffollamento, e, più in generale, alle condizioni che fanno gridare all’agente condannato: “Non sono un torturatore, questo mestiere è diventato impossibile”. E questo, non per prenderne le difese, ma per capire il fenomeno che ha due facce: se si tace dell’una, non si comprende neppure l’altra.
Affollamento delle carceri.
E’ un dato statisticamente accertato. Al 30 giugno 2024, nei penitenziari italiani erano presenti dieci mila reclusi in più rispetto al massimo consentito, con un indice di sovraffollamento del 130%. E’ però un dato non uniforme, diverso da regione a regione: in questa triste classifica un posto di rilievo (negativo) spetta, e questa può essere una sorpresa, la Lombardia, seguita però immediatamente da regioni centro meridionali, Lazio, Puglia e Campania. Si tratta, come appare evidente, di un problema gravissimo che si ripercuote sull’intera amministrazione carceraria, riducendo la qualità della vita dei detenuti ma anche degli agenti di polizia penitenziaria. Ma l’effetto più grave è dato dai casi di suicidio e di autolesionismo tra i carcerati che se non sono all’ordine del giorno, poco ci manca. Sono ottanta quest’anno i casi di suicidio già verificatisi tra i detenuti, ai quali occorre aggiungere anche i casi (per fortuna pochi: sette) di suicidio tra gli agenti di polizia penitenziaria. In ogni caso, per questi ultimi, pur essendo il suicidio un atto estremamente personale, dai mille risvolti in ciascuno dei casi, si tratta di numeri che non possono essere sottovalutati.
Si tratta infatti di gente che lavora in condizioni disumane, in ambienti insicuri, in edifici fatiscenti, tra detenuti che spesso hanno essi stessi bisogno di aiuto. Sembra certo che gli edifici esistenti non bastino, mancando un rapporto proporzionale tra capienza e popolazione carceraria. Per sanare questo divario, occorrerebbero più edifici, risanare quelli esistenti, ripristinare celle o sezioni cadute in disuso. Ma occorrerebbe anche assumere più guardie carcerarie, quelle esistenti essendo sottoposte a un lavoro massacrante, a turni incessanti, a problemi di non facile soluzione. E assicurare uno stipendio dignitoso (quello iniziale supera di poco 1300 euro netti) tenuto anche conto della difficoltà delle prove (anche fisiche) obbligatorie per l’ingresso nel corpo. Occorre insomma intervenire a monte dei problemi, alle fondamenta, alle radici (funditus: direbbero i latini). Invece no.
Si parla già di amnistia, di condono, di pene alternative, di modifiche sulla struttura e sulla pena di alcuni reati: senza sapere, o facendo finta di non sapere che ciascuno di questi rimedi ha efficacia solo temporanea e che tutti assieme valgono solo a tacitare opinione pubblica o parti politiche. Per intervenire funditus occorrono fondi: e la nostra economia è al collasso. Anche per altri problemi (l’immigrazione ad esempio) ho denunciato l’assenza di fondi, ma ho anche denunciato la mancanza di volontà non dico di risolvere ma di affrontare il problema, segnalando la necessità di una seria riforma fiscale che riduca le differenze sociali tra paesi e paesi, all’interno dei singoli paesi, per reperire, con una lotta seria all’evasione, i fondi necessari per risolvere il sovraffollamento ed altri problemi sociali.
Leggo con piacere che Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, sostiene la tassa patrimoniale minima (2%) sui superricchi (tremila miliardari globali) definendo la proposta “necessaria, fattibile e giusta”. Ha dichiarato Stiglitz che “la disuguaglianza di ricchezza è un problema globale ed è aumentata quasi ovunque, sia all’interno dei Paesi sia tra i Paesi.
Il mondo affronta multiple crisi, a partire dalla crisi climatica che è una minaccia esistenziale, e abbiamo bisogno di fondi pubblici per affrontarle. L’ideologia del neoliberalismo secondo cui più basse sono le tasse meglio è sta arrivando a esaurimento e si inizia a riconoscere che è vitale per il benessere delle nostre società tassare per poter fare investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, istruzione, infrastrutture e politiche industriali”. Ultimo punto, le disuguaglianze causate dal fatto che chi è in cima alla piramide paga meno di chi è alla base “creano disillusione nei processi democratici e minano la coesione sociale”.
Non aggiungo altro. Voglio sperare che le parole del Premio Nobel possano ispirare i nostri Governanti per una riforma fiscale “seria”, che è alla base di ogni altra riforma, ivi compresa quella del sistema penitenziario.
Giudice in pensione e scrittore*