La Casa sul Poggio di Michele di Lieto (un romanzo “storico”attuale)

Leggendo “La casa sul poggio”, ultimo romanzo di Michele Di Lieto, scrive – Iole Chiagano – molti autori mi sono venuti in mente, da Manzoni a Verga  a  Galsworthy,  da Tomasi di Lampedusa a Bacchelli alla Morante a Eco e talvolta persino a Cervantes ma, cercando di seguire le linee di paragone con essi, mi sfuggiva sempre qualcosa. Sebbene anche questo nostro romanzo si richiami al romanzo storico, la sua struttura narratologica mostra una fisionomia peculiare che appartiene a quasi tutte le opere di Michele di Lieto,  si potrebbe dire una sua costante: la narrazione spesso s’interrompe per tornare al presente o per considerazioni personali, con paragoni e analisi in cui l’autore s’interroga su come sarebbe stata quella tale situazione se si fosse verificata nel presente. E’ certamente una novità questa intromissione del narratore, soprattutto in questo genere di romanzo che, per il resto, risponde a tutte le dinamiche del romanzo storico.

Quello che interessa all’autore,  in modo particolare, è il rapporto tra la società civile e il mondo della realtà storica: egli è preso essenzialmente dai fatti vissuti dai singoli che descrive secondo una narrazione lucida e pacatamente realistica.

La “verità” narrata risponde al linguaggio tipico dell’autore;  il suo stile rimane fedele alla chiarezza espressiva e alla struttura logica di un discorso piano, ricco di un lessico personale che costituisce il nucleo fondamentale del suo linguaggio letterario  presente in tutti i suoi romanzi ma,  in quest’ultimo,  trova una collocazione più specifica trattando di argomenti storici e, spesso, anche giuridici. Quel che rende originale il romanzo di Michele di Lieto è che, nonostante la Storia,  le calamità, le vicissitudini, il suo linguaggio narrativo si colora di una diffusa, leggera “ironia” che rende più leggera la vita.

L’autore ripercorre gli snodi principali di tre secoli che ruotano intorno alle vicissitudini della  famiglia Ognissanti e alla loro “benedetta” casa in compagnia di  un vorticoso e affascinante brulichio di figure reali e immaginarie in assoluta libertà  di ricerca storica, documentata e non, come Egli stesso confessa.

Non è un caso che l’autore segua l’evolversi della famiglia Ognissanti da Napoli (o da Girgenti) al Cilento dalla metà del 1600 alla fine del 1900. Infatti la sua narrazione è anche frutto dell’esperienza umana e professionale che lo ha messo a contatto con “personaggi”  che ha incontrato nel Cilento dove vive da oltre trent’anni.

Questo mondo, al quale  Di Lieto si è avvicinato sempre con animo curioso ed amico, sembra aver destato in lui la sensazione che il senso della vita non sia nelle certezze, nella stabilità, ma nella mutevolezza che però nulla cambia davvero  per la contraddittorietà degli  eventi. Infatti i secoli, che il Nostro attraversa, evidenziano il principio immobile della dinamica storica secondo cui: “agli uni il potere e agli altri la servitù”.

Come si può immaginare è un’impresa non facile ma l’autore riesce a dare un quadro convincente e avvincente di questa “saga” che attraversa gli eventi più importanti del lungo periodo storico raccontato. La sua arte narrativa confonde verità e invenzione con maestria, sicuro com’è che nella contraddittorietà del reale consista la totalità della vita.

Sarebbe una impresa, forse anche superflua, tentare una sintesi di un romanzo che abbraccia più di tre secoli di storia, dalla peste del seicento al terremoto dell’80, dalla repubblica partenopea alle migrazioni di fine ottocento, da Gioacchino Murat a Umberto I°, e racconta la lunga odissea della famiglia Ognissanti, mai disgiunta dalla sorte della Casa sul poggio, che è il simbolo di tutte le traversie della famiglia protagonista.

Mi limiterò a dire che il romanzo è diviso in quattro parti; che ogni parte ha la sua storia, che ogni storia ha i suoi eroi, che tutti gli eroi si scontrano coi potenti, che tutti gli eroi fanno una brutta fine. A partire da Gesualdo, eroe della prima parte che dallo scontro coi potenti esce sconfitto, perché “non c’è giustizia per i poveri cristi”. Per finire ad Antonino, eroe della quarta, che pure si scontra coi potenti, pure ne esce sconfitto, perché questa è “la giustizia dei poveri cristi”. Come si vede, motivi che tornano e riportano al presente la storia del passato secondo un modulo narrativo che sopra abbiamo definito costante nelle opere dell’Autore.

Ma una brutta fine fa pure la Casa sul poggio che dà titolo al libro. Oggetto di un progetto di restauro perseguito da Antonino, progetto che si scontra col potere dei ricchi, ma anche con le invidie dei meno ricchi, la casa sul poggio non sarà neppure ultimata. Sottoposta a sequestro “per dieci centimetri in più al piano mansardato”, si fermerà al piano terra neppure completato.  Resta della casa solo il cartello “roso” dal tempo: sequestro penale, corpo del reato. “Sta proprio sotto la scritta incisa sul portale: TO (Terzo Ognissanti) AD MDCLXXI, anno del Signore 1671”. Che è l’anno di nascita della casa, e segna la fine del libro.

Vorrei concludere, e mi avvio alla fine,  tornando all’ironia, della quale dicevo all’inizio, che stempera le situazioni più amare, e sembra del tutto congeniale all’autore. Si veda, a titolo di esempio, la quarta parte del libro, dove l’ironia è presente dall’inizio alla fine. A partire dalla figura di Antonio, padre di Antonino, aspirante emigrante, “candidato ad essere iscritto nella circoscrizione dei votanti all’estero”, che torna al paese natio “accolto dalla banda di Conversano”, “chiamata per la verità non per lui ma per il santo patrono che quel giorno si festeggia”, per finire alla figura del protagonista, Antonino, “infermiere ferrista”, innamorato di Marta Boschi, “campionessa di tiro con l’arco”, che fa “la fine di Coppi”: anzi l’opposta, perché mentre Coppi muore di malaria (e Geminiani si salva), Antonino, malamente curato per malaria, muore di “febbre di Tailandia” (e Marta Boschi si salva).

E  qui concludo, non senza aver fatto, per completezza, un cenno al linguaggio, che già si è detto semplice, lineare, anche quando si parli di legge e di diritto, ma che, nella terza  parte, si inventa un vero e proprio epistolario in dialetto cilentano. Non sembra che l’Autore voglia concedersi a mode del tempo che vive (il paragone viene spontaneo con Antonio Pennacchi e Canale Mussolini): sembra piuttosto che il ricorso al dialetto cilentano rappresenti  un atto di omaggio, un segno di affetto verso quel mondo al quale l’Autore si è sempre affacciato con animo curioso ed amico, come si è detto prima.

In definitiva, un bel libro, un romanzo che raccomando al lettore per scoprire le tante vicende puntualmente descritte e gli altri mille personaggi che ci raccontano una umanità sempre ricca.

Commento a cura di Iole Chiagano

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