La casa sul poggio. Interviene nel dibattito Michele Di Lieto – Parte seconda

LA CASA SUL POGGIO. INTERVIENE NEL DIBATTITO MICHELE DI LIETO

Parte seconda.

Dovrei qui riprendere il discorso su La casa sul poggio, se non mi venisse spontanea  una domanda che molti si faranno o si saranno fatta. Oggi è il 23 di marzo e ieri, 22, c’è stato l’attentato ISIS all’aeroporto e alla metro di Bruxelles. Un attentato che ha fatto più di trenta morti, centinaia di feriti, e segue di pochi mesi l’attentato al cuore di Parigi, con 130 morti e trecento feriti. Una vera e propria guerra, una guerra diversa da quelle cui eravamo abituati, una guerra che semina panico e morte.

Mi chiedo, e molti si chiederanno, che senso ha continuare a parlare di un libro, riprendere il discorso su La casa sul poggio? Io penso ne abbia: se non ne fossi pienamente convinto, vi avrei  rinunciato. Guerre, a ben guardare, ci sono sempre state: e parlo non solo delle guerre risalenti nel tempo, tanto per dire della seconda guerra mondiale, della guerra di Corea o della guerra del Vietnam che hanno segnato l’infanzia o l’adolescenza di alcuni di noi. Parlo di guerre più vicine: com’erano quelle che intendevano esportare la democrazia o quelle che intendevano rimuovere dittatori e dittatorelli dei paesi arabi per insediarne degli altri (e provocando disastri). E parlo di guerre ancor più vicine: come per dire, quelle combattute dall’aria con droni, missili e bombe intelligenti. Forse che droni, missili e bombe intelligenti non seminano morte?

Che cosa è cambiato allora da giustificare le nostre paure, i nostri dubbi, le nostre incertezze? Niente, se non che le bombe sono arrivate anche tra noi. E forse continueranno ad arrivare, perché non si intravedono, io almeno non ne intravedo,  soluzioni efficaci a conflitti che hanno pur sempre la loro radice nella situazione di miseria che affligge milioni, miliardi di persone. Non tenterò qui di analizzare le cause, i mezzi, le colpe, la genesi di una guerra, che ci trova tutti impreparati. Non sono un sociologo, non sono un esperto di cose militari. Mi limiterò a una osservazione, che mi è venuta immediata  quando ho appreso il fatto, e che oggi viene ripetuta da più parti. L’attentato a Bruxelles segue di pochi giorni l’arresto di Salah, uno degli attentatori di Parigi. Ora, nelle nostre società, dove i mezzi di informazione sono in grado di seguire passo passo se non di anticipare i movimenti della polizia, sarebbe stato difficile, se non impossibile, tenere nascosta la notizia dell’arresto. Ma era proprio necessario rivelare che Salah stava collaborando? Non è che questa rivelazione, sbandierata ai quattro venti, ha anticipato l’attentato di Bruxelles? Con queste forze di polizia, con questi apparati, c’è ancora da sperare che l’Europa e l’Occidente siano in grado di vincere questa guerra? O c’è solo da fidarsi della buona stella che, finora, ha impedito che la guerra arrivasse anche in Italia, anche tra noi?

Per intanto, occorre prendere atto che la guerra c’è: occorre abituarsi, adattarsi, affrontare qualche rischio, adottare le dovute cautele. Il che, intendiamoci, non sarà necessariamente un male, se varrà ad eliminare, ad esempio, quelle tristi abitudini del sabato sera, che inducono migliaia, centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza, a bivaccare all’aperto, a trasformare la notte in giorno e viceversa.

Ma come le grandi guerre, alle quali ho sopra accennato, non hanno impedito alla scienza di progredire, alla cultura di affermarsi, agli scrittori di scrivere ancora, così la guerra in atto non ci impedirà di dedicare un po’ di attenzione alla lettura, alla scrittura, a fenomeni più o meno culturali. Per testimoniare a noi stessi prima che agli altri che la vita continua, e che il sapere, l’ansia di sapere non ha limiti.

Non sarà male, a tal fine, sottolineare che  una esigenza vivamente sentita in questi ultimi tempi, anche e non solo per comprendere  la genesi delle guerre, è quella di approfondire la conoscenza storica di popoli e nazioni, a partire dal nostro paese: e il mio libro, se ha una pretesa, ha quella di approfondire la storia del meridione, la nostra storia, con l’umiltà di chi non ha fatto lo storico di professione, e con lo sguardo rivolto a un pubblico giovane, perché il futuro è dei giovani, non dei vecchi, e la storia del futuro è affidata ai giovani, non ai vecchi.

Torniamo a La casa sul poggio. Ho detto che il mio libro ha la pretesa di approfondire la conoscenza di alcuni lati della nostra storia, anche se resta un’opera di narrativa. Più di uno, anche per questo, ha parlato di romanzo storico. Ne ha parlato per prima Italia Sangiovanni nella su accurata recensione.

Ho già detto, e anche scritto, che non sono convinto che il mio libro sia un romanzo storico nel senso comunemente attribuito a questo termine. Per quanto mi riguarda, preferisco parlare di romanzo-denuncia, anche se avverto i limiti di questa formula, e i limiti della stessa disputa: romanzo storico-romanzo denuncia, che rischia di mettere in secondo piano la sostanza del libro. Quella che sola interessa il lettore. E dunque si prenda per buona la formula: romanzo-denuncia.

Denuncia di che. Denuncia del contrasto onnipresente tra ricchi e poveri, i ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri. Denuncia dei vizi del potere, delle prepotenze, delle angherie che opprimono i poveri cristi. Denuncia delle miriadi di leggi, delle miriadi di competenze, degli artifici e cavilli che si infiltrano nel processo, e fanno sì che la giustizia diventi ingiustizia, quanto meno per i poveri cristi. Mi soffermerò brevemente su ciascuno di questi profili.

Quanto al contrasto tra ricchi e poveri, dei ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri, ho sostenuto nel libro, per il passato e per un paese essenzialmente agricolo, la tesi, non so quanto fondata, ma è mia, che l’origine di questa anomalia fosse da ricondurre allo stesso modo di acquisto delle proprietà terriere: per questo ho dedicato tanto spazio alle leggi sull’abolizione della feudalità, la prima risalente alla repubblica del ’99, la seconda a Giuseppe Bonaparte, entrambe rimaste sulla carta. Per questo ho parlato del sistema dell’asta, pensato per favorire le classi più indigenti, i contadini, e sfruttato invece dai proprietari terrieri per assicurarsi le terre confiscate alla Chiesa, e diventare da ricchi ricco sfondati. Ma oggi che la proprietà terriera non è più l’asse portante dell’economia del paese, io non saprei indicare le cause di un fenomeno, che allarga sempre più la forbice tra poveri e ricchi, i ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri. Sarà forse il lato deteriore del capitale, sarà il neoliberismo sfrenato, sarà la potenza della finanza, certo è che quella forbice si allarga sempre più, non solo tra il sud e il nord d’Italia, ma tra paese e paese, regioni e regioni del pianeta.

Non farò cifre, basterà cliccare su Google per averne conferma. Ma quelle cifre attestano un divario contrario alla logica e al senso comune, un divario che giustifica, a mio avviso, anche le guerre, le guerre di qualsiasi tipo, essendo legittima l’aspirazione di milioni e miliardi di uomini a colmare un divario intollerabile e sempre più ampio tra ricchi e poveri, i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Che ciò avvenga in nome della religione, della politica, o, più semplicemente, per ragioni di sopravvivenza, non importa. Il fenomeno esiste. Occorre prenderne atto.

Quanto al secondo profilo, i vizi del potere, le prepotenze, le angherie che rendono impossibile la vita dei poveri cristi, si riconnettono al primo, i ricchi essendo da sempre i detentori del potere. Un potere che si manifesta forte coi deboli e debole coi forti. Un potere che opprime, un potere che angoscia. Il problema viene affrontato nella quarta parte, là dove parlo del progetto edilizio di Antonino, ma non mancano esempi nelle altre.

Anna Milite, nella sua recensione altrettanto accurata, ricorda la Chiesa della prima parte, che si arricchisce durante la peste, sfruttando l’idea del castigo di Dio, o i Papi della seconda (sempre parte) che concedono indulgenze durante la carestia a chi fa digiuno per due giorni consecutivi. Che voleva dire, si badi bene: morite di fame, morite al più presto. Vorrei aggiungerne un terzo. Il Banco, i Banchi, il potere del sistema bancario. Del Banco, e dei banchieri, io parlo nelle prime pagine del romanzo, quando faccio dire al protagonista che “nonostante le prammatiche del reame, avevano l’aspetto di usurai”. Del Banco, e dei banchieri, torno a parlare subito dopo, quando Gesualdo si reca a depositare la somma fino allora nascosta nella cimasa dell’armadio, e il cassiere, alla sola vista del danaro (mille e ottocento ducati) “gli brillarono gli occhi”. Del Banco, e dei banchieri, continuo a parlare più tardi, quando, di fronte alle richieste di Gesualdo (che ha perso la fede di credito nel naufragio), non esito a dire che “furono cinici”, fino al punto di mettere in dubbio la stessa operazione eseguita da Gesualdo, e a farsi scappare la parola: ladri. Del Banco, e dei banchieri, mi occupo ancora più tardi, quando, parlando della lite promossa da Gesualdo e del giureconsulto del Banco, che “aveva alla Corte più aderenze dell’Infanta”, mi faccio scappare: “si sa qual è, qual era il potere dei banchi nel seicento”, potere evidentemente che esiste tuttora. Del Banco, e dei banchieri, parlo ancora nella seconda parte e nella quarta.

Ora, io non ho nulla contro i Banchi e i banchieri, dei quali a torto o a ragione (più a torto) mi sono sempre fidato. Ce l’ho contro il sistema, ce l’ho contro le distorsioni del sistema bancario, che poi sono le stesse del sistema di potere. Qualche cenno di carattere storico non guasta. Il Banco è nato, quando è nato, per raccogliere risparmio e investirlo a fini produttivi. Oggi non è così. Il Banco, qualsiasi Banco raccoglie risparmio e lo destina a fini speculativi: acquista cioè, coi soldi del risparmiatore, azioni, obbligazioni, titoli di Stato più o meno garantiti. Fino a che il titolo va, tutto bene. Se il titolo non va, il Banco tracolla, e coinvolge nel tracollo il risparmiatore. Il caso più noto è quello che si è verificato qualche anno fa negli Stati Uniti, e ha prodotto il tracollo di un colosso bancario, i Lehman Brothers, coinvolgendo nel tracollo tanti risparmiatori non solo degli Stati Uniti. Ma casi eclatanti si sono verificati anche da noi in tempi più vicini: parlo dello scandalo della Banca Etruria che ha coinvolto tanti piccoli risparmiatori che lì avevano investito i risparmi di una vita. Ecco perché sono così ostile ai Banchi, ai banchieri e al sistema bancario, che a torto o a ragione (più a ragione) considero espressione del potere, del potere nelle sue forme deteriori, e nei casi più gravi di quel cinismo che, al solito, travolge i poveri cristi.

Vengo qui all’ultimo profilo. La miriade di leggi, la miriade di competenze, la miriade di cavilli che si insinuano nel processo, e fanno della stessa giustizia un affare solo per i ricchi. Non c’è giustizia per i poveri cristi. Questa è l’affermazione che chiude la prima parte. E quella che chiude anche la quarta. Perché il fenomeno non è solo d’oggi. Non a caso ho scritto, riportando le parole di Pietro Colletta, delle miriadi di leggi, ordinanze, decreti, usi, costumi, che costituivano il corpo normativo prima di Napoleone nel regno di Napoli. Oggi le leggi pare che siano centocinquantamila. Dico: pare, perché nessuno sa con esattezza quante siano. In ogni caso, tante, e fanno dell’onniscienza del giudice una chimera. Si potrebbe ripetere oggi, parafrasando il Colletta, che ogni lite, comunque assurda, trovi sostegno in qualche norma, e che la maggior fortuna degli avvocati risieda nelle astutezze legali, che aprono la strada alle soluzioni più inique, e fanno della giustizia una giustizia per ricchi. Si potrebbe ripetere oggi, citando sempre il Colletta, che da questa congerie di norme discende la lunghezza dei giudizi, lunghezza abnorme che sembra fatta apposta per i furbi, i corrotti, i disonesti.

Di qui il pessimismo di fondo che percorre il mio libro. Che nasce dalle cose, più che da un fatto congenito. E giustifica (vorrebbe giustificare) anche gli eventi disastro che fanno da cornice alle quattro parti del libro. La peste del 1656, la carestia del 1764, il colera del 1884, il terremoto del 1980. Eventi disastro che sono sempre stati motivo di arricchimento per i furbi, i corrotti, i disonesti. Lo dico espressamente nella terza parte, quando scrivo che le guerre, le pestilenze, le carestie portano ricchezza ad alcuni, miseria ad altri. Lo ribadisco nella quarta, quando parlo del terremoto del 1980, e della scandalosa estensione delle aree terremotate ad aree che col terremoto non avevano niente a che fare. Non c’entrava nelle vicende narrate, ma avrei potuto aggiungere che, in tempi più recenti, in occasione del terremoto d’Abruzzo del 2009, e col sisma ancora in atto, alcuni imprenditori, io li chiamerei sciacalli, sghignazzavano al telefono e ridevano al solo pensiero degli affari che il disastro gli avrebbe procurato.

Si tratta di un pessimismo di fondo che, per riportarmi all’inizio, e parlare degli eventi di oggi, io nutro anche nei confronti della guerra in atto. La guerra dell’ISIS. La guerra che ha seminato morte a Parigi, morte a Bruxelles. I nostri governanti, i governanti d’Europa, si mostrano ottimisti. Si dicono sicuri che vinceranno la guerra all’ISIS, perché tra il terrore e la democrazia, tra la morte e la vita, vincerà la democrazia, vincerà la vita. Ma i governanti sono i governanti e hanno il dovere di essere ottimisti. Guai se fosse diversamente. Che dire. Mi auguro che abbiano ragione loro, mi auguro che il mio pessimismo possa essere smentito. Ho finito.

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