E così, è passata pure la seconda Pasqua in lockdown. L’intero Paese in rosso. La gente smarrita, frastornata, impotente. Ritengo lecito un bilancio, sia pur provvisorio, dell’attività di governo. Vedere il paese come è ridotto, constatare dopo tredici mesi che nulla, o quasi
nulla è cambiato, fa sorgere il sospetto che qualcosa non va come deve andare. Vediamo.
Temevo, e come me temevano in tanti, che Mario Draghi, ignaro di cose politiche, ancor più di crisi da virus, si sarebbe trovato in difficoltà a fronteggiare un fenomeno di proporzioni non mi viene il termine tanto sono estese, un fenomeno neppure previsto che nessuno gli avrebbe augurato: l’emergenza determinata dal Covid e dalle sue varianti, non bastava la prima, neppure la seconda, ci voleva la terza ondata. Temevo pure, e come me temevano in tanti, che Mario Draghi, esperto in affari economici quant’altri mai, si sarebbe occupato solo del piano imposto dal recovery plan, non potendo neppure affrontare temi come la scuola, la sanità, il fisco, e chi ne ha più ne metta, abbandonati da secoli. Ma un governo è un governo, e il Capo del governo non può restringere il suo campo di azione a uno o più temi, e limitarsi a dire: di questo, e solo di questo, mi occupo io, non di altro. Se ti capita una tegola in testa come la terza ondata, te la tieni e corri a salvarti, come vai a salvare la gente che di te si fida: se non di te, degli uomini che ti stanno attorno, se non dei ministri, degli uomini (e donne) di scienza che ti stanno dietro.
Di ciò si è accorto lo stesso Draghi, che ha messo al primo posto nell’ordine delle priorità l’emergenza Covid. Il fatto è che il solo nome del grande economista aveva indotto a credere che, come i problemi legati al Recovery plan, così Mario Draghi avrebbe risolto i problemi anche economici (soprattutto quelli) nascenti dal Covid. Niente.
Mario Draghi ha copiato Giuseppe Conte: con l’aggravante che il primo ha avuto elementi di conoscenza ignoti all’altro (e non poteva essere diversamente, trattandosi di un virus sconosciuto non solo a Conte, ma al mondo intero). Bene, cioè male. A Giuseppe Conte era stata rimproverata la politica del giorno per giorno, l’assenza di piani, di programmi, di idee, fondate o infondate che fossero. E Draghi lo ha seguito con la stessa politica fatta di rinvii, di scadenze mal calcolate, di previsioni sbagliate. Lo dimostra il piano di vaccinazioni con i suoi obiettivi. Continuamente rinviati.
Da 100 a 200 a 500mila vaccini al giorno. Con l’immunità di gregge variamente fissata. Prima ad aprile, poi a luglio, poi a settembre (ma ci sono di quelli che dubitano che possa essere raggiunta prima di dicembre o prima di maggio del prossimo anno). Draghi sembra credere molto nel piano di vaccinazione e nell’immunità di gregge. Io temo, e molti come me temono, che l’immunità di gregge non sia risolutiva. L’immunità di gregge si raggiunge col 70/80 per cento della popolazione vaccinata. Ma una percentuale così elevata presuppone disponibilità di vaccino, personale scelto, rapidità di intervento. Questo perché nessuno sa qual è l’efficacia nel tempo del vaccino che stiamo praticando: e se questa dovesse essere limitata (a sette otto mesi) ci si potrebbe trovare di fronte a gente vaccinata non più immune, in grado ancora di contagiare o di essere contagiata.
D’altra parte, l’immunità di gregge esige disponibilità di vaccino: e si è già visto che là dove manca il vaccino (non pagato abbastanza) addio vaccinazioni. Infine, personale selezionato. Aggiungo qui l’osservanza rigorosa di norme di prevenzione sanitaria: tanto per dire, la presenza di un medico, che in caso di bisogno non può, non deve essere contattato per telefono. Tutte cose, come ognun vede, difficili a trovarsi, a trovarsi tutte assieme, ma l’Italia non è Israele, dove sembra che l’immunità di gregge sia stata già raggiunta. Vorrei qui spendere qualche parola, ma l’ho già fatto, in favore di ristoratori e venditori ambulanti, rimasti senza lavoro e senza mercato. Si tratta di una delle categorie più penalizzate dalla pandemia: e dodici tredici mesi senza una lira sono capaci di fiaccare la resistenza di ognuno. Certo, non si può tollerare la violenza che provoca danno. Lo scontro con le forze armate, il blocco dell’autostrada, fanno danno. Ma lo stato di frustrazione di questa gente stanca di promesse deluse può anche giustificare reazioni violente. E’ questo il pericolo che si corre: che dalla fame possa nascere la rivolta sociale. Resta da dire, sempre sulla politica del rinvio, qualcosa delle “aperture”. Mi riferisco alla polemica politica fra “aperturisti”(Salvini) e “rigoristi” (Speranza). Salvini fa quello che sa. Ergersi a difensore dei negletti per acquistare consensi e rinsaldare la sua leadership, ora che a destra avanza la Meloni, unica forza dichiarata di opposizione. Ma a nessuno sfugge l’anomalia di questa condotta che consente a Salvini di fare maggioranza e nello stesso tempo opposizione, e di attaccare Speranza, ministro in carica dello stesso Governo di cui la Lega fa parte. Era questo che voleva Draghi? Consentire a Salvini il condono, la riforma della legittima difesa ed ora anche le aperture. Tutte cose di destra, anzi di destra estrema, se è vero che tra i manifestanti a Roma e a Milano vi erano anche simpatizzanti di Casapound.
Roberto Speranza, dal canto suo, invoca il diritto alla salute e l’art. 32 della Carta fondamentale. Ma Speranza deve pur capire la rabbia di chi è esasperato da questi continui rinvii: da ultimo, dopo il 20 aprile.
Né vale, in senso contrario, invocare la riapertura delle scuole: scelta obbligata, la sola che consenta alle donne mamma di riprendere il lavoro fuori casa, e di evitare nuove forme di sfruttamento (lavoro a domicilio, smart working). Che dire? Speriamo funzioni la “cabina di regia”: ma non è stata neppure convocata. Della cabina dovrebbero far parte anche le Regioni, quasi tutte favorevoli alla riapertura, non solo delle scuole, ma di tutte le attività cessate per via del Covid. Non è nuovo questo contrasto di opinioni, questo scontro fra governo e regioni, che può determinare disparità di trattamento tra regione e regione. Ma la competenza regionale in materia di sanità discende dall’art. 117 della Costituzione e dalla riforma del 2001, sottoposta a referendum e confermata dal 64% degli elettori. Per una nuova riforma occorrerebbe una nuova legge e, coi tempi che corrono, nessuno sa se e quando potrebbe essere varata. Vero è che oggi più d’uno sarebbe tentato di cambiare opinione, e, più in generale, di dire la sua sulle competenze regionali, ritenute esagerate dagli uni, dall’esito fallimentare dagli altri.
Da più parti (non solo a destra) si invoca l’uomo solo, l’uomo forte, capace di imporre norme valide per tutto il territorio, senza consentire alle Regioni di fare quel che gli piace, dividendo i cittadini in due classi contrapposte, di serie A e di serie B. Tutto questo però non fa che rinfocolare il dibattito, oggi sempre più acuto, tra fautori della democrazia diretta e fautori della democrazia rappresentativa. Per lungo tempo siamo stati abituati a ritenere quella rappresentativa l’unica forma di democrazia, caratterizzata da un circolo formato dall’elettore (governato) che delega a rappresentarlo l’eletto (governante), e torna dall’eletto all’elettore per il giudizio finale. Ma più di recente è stata rivalutata, anche contrapposta alla democrazia rappresentativa una forma di democrazia diretta, detta anche democrazia partecipata, o deliberante (ma qui i termini si sprecano), che mira a coinvolgere direttamente, senza rappresentanti, i cittadini nelle decisioni che li riguardano.
Non più dunque il circolo: governato, governante, governato, ma governante eguale a governato, senza intermediari (Parlamento o come altro si chiami). Si sostiene autorevolmente che la democrazia diretta sia l’unico mezzo per contrastare la degenerazione oligarchica dei partiti, perché, eliminando il monopolio legislativo, elimina pure le pressioni delle lobby sui partiti. Si sostiene pure con altrettanta autorevolezza, che la democrazia diretta è l’unico mezzo per opporsi a scelte economiche, sociali, ambientali, lontane dagli interessi comuni al gruppo che partecipa. Ma non mancano le voci critiche: e Il discorso sarebbe troppo lungo, complesso da affrontare. Qui basta dire che esperimenti di democrazia diretta sono stati tentati a livello locale in tutta Italia, e che anche Salvini (la Lega) hanno tentato di sperimentare una forma di democrazia diretta, il voto on line sulla piattaforma Rousseau per gli iscritti al partito.
Contro questo esperimento si sono appuntate le critiche più svariate. Anche io mi sono unito al coro dei dissensi rilevando, qui e altrove, l’inaffidabilità di un sistema che delega il voto, anche su temi importanti della vita del paese, a una schiera sparuta di elettori, senza fissare percentuali minime, senza offrire garanzie: di un sistema insomma che si offre al broglio come altri mai. Niente democrazia diretta, quindi, niente piattaforma.
Certo, qualcosa bisogna pur fare. I tempi cambiano, i giovani diventano vecchi, vecchie diventano anche le leggi, vecchia la Costituzione. Occorrerebbe uno sforzo di volontà, capacità di innovare, conoscenza profonda di storia e diritto. Non credo che oggi, con la crisi (non solo politica) che ci affligge, vi siano gli uomini adatti. Sono certo: ci saranno domani.
Michele Di Lieto*
*Magistrato in pensione