Il politichese nemmeno di fronte alla morte è capace di far silenzio, migliaia di lavoratori muoiono sul posto di lavoro ed ogni volta è sempre la stessa “sinfonia”: parole, parole e solo parole


Qui di seguito pubblichiamo una riflessione di Nando Morra, sullo scoppio della fabbrica FLOBERT, all’epoca era Segretario Generale della Camera del Lavoro – CGIL  Campania.

Flobert – testimonianza di una tragedia –  storia  e attualità  di una  strage sul lavoro

Nando Morra

La ultima tragica strage di lavoratori nella centrale Enel di Bargi salda purtroppo il passato con il presente.
L’eccidio inaccettabile di donne e uomini sui posti di lavoro continua. L’Italia è il paese con l’angosciante primato europeo. Sta qui  l’attualità e valenza culturale, sociale e politica, della iniziativa delle sezioni ANPI e della CGIL di ricordare le vittime dello scoppio della FLOBERT.
Il prezzo della fame. Questo il titolo del “ Roma “ il giorno dopo la tragedia. Una strage annunciata.  Una fabbrica di fuochi è una vita sospesa. L’11 aprile del 1975  segnò una svolta penosa per tante donne e uomini, operaie e operai che lavoravano alla Flobert, Dodici vittime; un solo sopravvissuto; tanti persero il lavoro.
Il lavoro degli ultimi e dei poveri.  Un boato terrificante squarciò l’aria e il cielo della pianura vesuviana. Un infernale fungo di fumo nero avvolse campagne, paesi, contrade, persone. Una seconda tremenda esplosione ridusse in macerie fabbrica, macchine, materiali. E lavoratori.
Fu subito chiaro. Non si  era risvegliato  il Vesuvio. Era  “ scoppiata “ la Flobert, la fabbrica di fuochi in “Contrada Romani”, nella campagna  tra  S. Anastasia e Madonna dell’Arco. Una tragedia del  lavoro precario, oscuro, con pochi diritti e  molti doveri. Fino a rischiare la vita. Un lavoro da disperati che si accetta per la “fame di lavoro” che attanaglia tante aree del Mezzogiorno.
Quasi  tutti giovani assunti da poco. Un solo superstite : Ciro Liguoro, allora ventitreenne. La  Flobert  produceva fuochi e munizioni per armi “ giocattolo “.  Chi lavorava  in quella polveriera a “cielo aperto “, in un territorio ad alta disoccupazione anche se punteggiato da industrie medio – grandi  ( la  FAG,  l’ ALFA SUD, le Corderie  Napoletane, ecc),sapeva di rischiare la vita ogni giorno.
La notizia, dirompente e drammatica, arrivò  come fulmine  in Camera del Lavoro . I compagni Santoro, Iodice e Cortese, dirigenti della FILCEA, il sindacato Chimici, erano affranti. In delegazione con Lombardi, Ridi, Cozzolino, Chegai, Zeno, piombammo a S. Anastasia. L’area della fabbrica, la “ Contrada Romani,” era inaccessibile. Vigili del Fuoco, Polizia, Carabinieri accorsi dai presidi vicini e lontani lavoravano febbrilmente.
Sul posto i  Consigli di Fabbrica del territorio, in testa l’Alfa Sud,  collaboravano per il servizio d’ordine. Uno scenario apocalittico simile alle immagini dello strazio delle bombe su Gaza o in Ucraina, con  le devastazioni,  le lenzuola- sudario di persone irriconoscibili. Diverse dalle  cupe immagini della strage nella Centrale di Bargi  ma con lo stesso straziante messaggio di morte.
Una esperienza umana e politica che resta dentro anche dopo mezzo secolo.
Alto e profondo il significato umano e sociale del sepolcro comune  con dodici croci nel cimitero di S. Anastasia. Fu  impossibile ricomporre i corpi lacerati e dispersi dalle deflagrazioni  della “ baracca” più che “bunker” e poi della  “polveriera”.  Sono distinti e nitidi solo i nomi dei caduti. Caduti nella guerra per il lavoro, contro la fame e la miseria.
Un mare di popolo da  Pomigliano d’Arco, Somma Vesuviana, Cercola e altri paesi vesuviani, riempì le strade. Un dolore ostile verso le cosiddette “autorità” ma anche la consapevolezza che si era compiuta ancora una immane tragedia del lavoro. Dolore, rabbia, sdegno ma anche triste rassegnazione segnavano volti e pensieri.
Si muore sul lavoro non per un destino “cinico e baro “ ma per definite responsabilità con radici nella precarietà  delle condizioni operative, nei ritmi sempre più disumani, nelle insufficienza e inefficacia delle norme sulla sicurezza; nella secolare  “fame di lavoro”, condanna storica per il Sud e matrice che alimenta devianze verso la  criminalità e la camorra.
Un punto che si salda alla “fame di profitti” di tanta imprenditoria minore e senza scrupoli  degli appalti e subappalti; della inesistenza dei controlli ;del declino della stessa vigilanza sindacale nei luoghi di lavoro. Al Sud come al Nord in ogni settore produttivo, si muore ancora e troppo sui posti di lavoro. Oggi più di ieri. E’ la fredda, tremenda ma logica-verità  dei numeri.
Ebbi il compito – dovere di “celebrare” il “ funerale laico “ a nome di CGIL,CISL e UIL. Fu dura.
La tensione era densa come il dolore.  C’erano anche tante” autorità” : il Prefetto Amari, il questore, alti ufficiali delle forze dell’ordine, il presidente del Consiglio regionale Porcelli, il procuratore generale Cesaroni, tanti “politici”. Il Cardinale Ursi  inviò un “messaggio “ . Ma soprattutto operaie e operai, cittadini. Una immensa folla :   nervosismo, insofferenza, ribellismo e anche  un sottofondo di ostilità. Verso tutti. La stessa “aria”  pesante che si respirava nei giorni caldi delle lotte e delle “rivolte” di Battipaglia, Eboli, Gioia Tauro, Reggio Calabria, Avola, Montescaglioso….Migliaia di tute blu : il Sindacato unitario aveva deciso  ore di sciopero generale.
Ho un ricordo nitido e drammatico. Parlai da un piccolo balcone sovrastante il  bar “ A Rossa “ al centro del quadrivio  tra le strade  S. Anastasia – Somma Vesuviana –Pomigliano – Madonna dell’Arco. Ora il bar ha altro nome. Un oceano di persone e tanti sentimenti, in primo luogo il dolore, la rabbia, la protesta per una tragedia annunciata che colpisce sempre i più deboli, gli ultimi, i protagonisti di un lavoro disperato e disperante.
Il “ Mattino” scrive nella cronaca dei funerali : “ c’era ribellione e sfiducia ma nell’ultimo saluto alle vittime il discorso era ricco di parole giuste, di richieste antiche e sacrosante per i lavoratori …… di condizioni meno assurde e disperate per le genti del Sud dentro e fuori le fabbriche come nelle campagne…”
La “celebrazione” riuscì a infondere e trasmettere solidarietà, fiducia, la idea che la lotta per il “lavoro sicuro” segnava una tappa dolorosa ma anche la consapevolezza nuova che si trattava di una battaglia dura, difficile, senza fine. Come purtroppo questi anni dimostrano e come l’eccidio ultimo di Bargi conferma.
Il lavoro è un diritto e lavorare significa vivere. Non può trasformarsi in rischio mortale. I numeri parlano e inchiodano a responsabilità dirette ma anche sociali. L’eccidio si manifesta nelle fabbriche, nell’agricoltura, nei cantieri edili, nella portualità, in tutti i settori degli appalti e subappalti e soprattutto nel mondo composito della immigrazione, del lavoro precario, dei senza contratti e senza tutela,  dei “senza diritti ”. Si tratta di una battaglia di civiltà ancora tutta da combattere come ricorda il Presidente Mattarella a un Parlamento e una classe politica “sorda e cinica”, sempre più lontana dai cittadini  e dal mondo del lavoro.
I giornali dell’epoca  e la  stampa nazionale, documentano quei tristi  giorni  di ieri come le tragedie di oggi. Poi si fa poco. Sta qui il  grande significato valoriale, culturale, etico, sociale e politico che le Sezioni ANPI e CGIL  del territorio ricordino alle giovani generazioni con una iniziativa e una mostra,  una autentica “strage degli innocenti “ dando contenuti e attualità  al pensiero di  Francesco De Martino per il quale “ un popolo senza memoria è un popolo senza storia e senza futuro “.
Analoga meritoria iniziativa anche dell’ANSE( ex Elettrici ) nel ricordare la più grande strage sul lavoro verificatasi in Campania, nel marzo 1952, in località Cannavinelle, con la  esplosione della  galleria sotto Monte Cesina  costruita dalla SME per la Centrale idroelettrica di Montelungo. Un eccidio con  42 vittime. Ricordare è rifare la storia. Non è semplice. La storia definisce e implica responsabilità. L’opportunismo di chiudere occhi, orecchie e bocca è il rifugio dei colpevoli, diretti e indiretti.
E’ stata anche disposta una mostra di giornali e foto dell’epoca resa possibile dalla  collaborazione e disponibilità della Emeroteca Tucci,   preziosa “ miniera “ storica, culturale e informativa curata da Salvatore Maffei e da validi collaboratori. Su un giornale in prima pagina c’era la foto del solo superstite appena estratto dalle macerie. Una emozione intensa: Ciro Liguoro non si era mai visto in  quella foto agghiacciante. Era a terra, quasi irriconoscibile, più morto che vivo.
Su una casamatta diroccata una freccia indicava: Flobert. Non c’è più. Come gli undici operai morti sul e per il lavoro. La stradina che conduceva alla ex Flobert si chiama ora “ Via Caduti del Lavoro”.
 Nando  Morra

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