Si muore anche per lavorare, tuttavia le istituzioni e la politica si fanno trovare sempre al “palo”, mentre i “faccendieri” si arricchiscono, alle spalle di chi si sacrifica per un “tozzo di pane”, senza se e senza ma.


Il giudice Michele Di Lieto ha scritto una “penetrante riflessione”, in particolare sugli infortuni sul lavoro richiamando l’attenzione non solo delle istituzione e della politica, ma di ognuno di noi, affinché il problema sia sempre più vivo nella società. Troppo spesso nel nostro Paese, al momento degli incidente, soprattutto alcuni vertici istituzioni esprimono rabbia e pronunciano pugno duro, ma tutto questo diventano solo parole al vento, visto che gli stessi personaggi se ne dimenticano presto, insomma: “passata a festa, gabbato lo Santo”. Salvo, poi, al successivo incidente sentir ripetono lo stesso ritornello, cioè “tale e quale”. Troppo spesso, con le stesse parole ed anche con lo stesso furore, parlando di una vera svolta che, comunque sarà immediata. Insomma “lacrime da coccodrillo” che nell’occasione vengono espresse con un commosso sentimento di amarezza, anche in maniera rabbiosa, ma che alla fine tutto rimane statico o meglio tutto è rinviato al successivo disastro o morte per lavoro, in breve è un ripetersi continuo da decine e decine di anni. Per dirla con il Gattoparlo: Bisogna che tutto cambi perché niente cambi“.
Michele Di Lieto scrive:
Mi sono più volte (cfr. da ultimo: Fatti e fattacci, pag. 136, Largolibro editore) occupato di infortuni sul lavoro, denunciando l’opera  del tutto insufficiente  svolta  dall’autorità amministrativa sulle cause delle ‘morti bianche’

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che io continuo a chiamare  ‘rosse’ dal sangue degli innocenti.  Sono sollecitato in questo lavoro dal numero enorme (tre al giorno, più di mille all’anno) di infortuni che provocano la morte di uno o più lavoratori, e dalla attenzione dedicata dai media agli infortuni  mortali più eclatanti per numero di morti, quasi che la morte degli operai coinvolti nell’incendio della centrale idroelettrica dell’Appennino tosco-emiliano  non sia la stessa  che colpisce il lavoratore edile che precipita dall’alto di una impalcatura o viene travolto da una lastra di metallo pesante. Questo senza considerare l’effetto di ‘quasi morte’ prodotto da lesioni gravissime (penso all’amputazione di un arto o di entrambi, a disturbi neurologici destinati a durare tutta una vita) in conseguenza di infortuni sul lavoro.

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Il guaio è che, ad ogni verificarsi di gravi infortuni, si accompagnano   manifestazioni  di cordoglio, promesse, assicurazioni destinate a rimanere lettera morta.  Così come sembra  siano destinate a rimanere lettera  morta le parole del Capo dello Stato, che più volte si è occupato del tema, condannando gli infortuni come ‘oltraggio’ ai valori della convivenza, come  ‘ferita sociale lacerante’, e trattando la sicurezza sul lavoro come ‘banco di prova della civiltà di un paese’. Belle parole, ma solo parole.  Altro guaio è che non si vogliono attuare quelle misure che, sole, possono infrenare il fenomeno, mai eliminarlo  del tutto. Parlo della prevenzione e della sicurezza sul posto di lavoro.
Della prima che presuppone una ‘formazione’  (sia del datore di lavoro sia del dipendente) che non si limiti ad attestazioni generiche, ma si estenda a corsi preventivi o contemporanei all’assunzione che siano mezzo di conoscenza del rischio o dei rischi legati alla singola attività lavorativa.
Della seconda, che presuppone un sistema di controlli affidato a gente esperta, non eccessivamente severa , ma competente e preparata. Ma i controlli costano, e non bastano i fondi attualmente destinati alla Protezione civile e all’Ispettorato del lavoro. Che se proprio fossero necessari, i tagli dovrebbero colpire fondi già destinati  a  finalità meno nobili (le spese  per armi assegnate all’Ucraina).  Né vale, in questa materia, evocare la lentezza dei processi penali o la tenuità delle pene. Intanto, questo è problema che tocca le sole infrazioni previste dalla legge come reato: ve ne sono altre, e sono tante, punite con sanzioni amministrative, e qui il problema della lentezza  del processo penale non si pone neppure.  Quanto alle pene, esse esistono, e sono pure severe, per le infrazioni amministrative. Ma, perché sia possibile applicare le pene, occorre accertare l’infrazione e per accertare l’infrazione occorrono controlli. Col che si ritorna al punto di partenza.  Si badi che, fino a qualche anno fa (i dati sono relativi al 2019), l’intervallo medio tra l’uno e l’altro controllo alla medesima azienda veniva fissato in undici anni e mezzo. Si sperava di portare la durata a nove anni, ma anche per questo occorrevano uomini e mezzi che non sono arrivati se non in misura del tutto insufficiente.  Che sia insufficiente il numero degli addetti ai controlli è dato riconosciuto a qualsiasi livello.
Tra le manifestazioni di intento professate di recente dallo stesso Ministro del lavoro (marzo 2024) esiste anche quella di potenziare il personale ispettivo in materia di lavoro.  Ma il problema è diventato di estrema attualità in seguito alle sciagure che si sono verificate negli ultimi tempi dappertutto in Italia, da Firenze a Bologna, da Torino a Milano. Alcune di esse paiono strettamente collegate alla violazione di elementari norme di sicurezza e ad esse voglio dedicare, brevemente e per non rubare il mestiere a nessuno, quest’ultima parte del mio lavoro.
E’ il più recente ed è quello che è avvenuto qualche giorno fa nella centrale idroelettrica di Suviana (in provincia di Bologna) in seguito a un incendio (o a un’esplosione che avrebbe causato l’incendio o a un crollo che avrebbe provocato l’allagamento) verificatosi a trenta metri di profondità al nono piano sottoterra dell’impianto. Sette morti cinque feriti gravi ricoverati in ospedale: questo il triste bilancio della sciagura. Della quale non sono chiare le modalità essendosi i soccorritori impegnati per più giorni e con impiego di mezzi non comuni nel tentativo (vano) di ritrovare vivi i quattro operai che venivano dati per dispersi. Quello che pare certo è che le vittime non sono morte sul colpo, ma hanno avvertito la gravità dell’incidente e hanno tentato di scappare. Tutti gli operai hanno tentato: qualcuno ce l’ha fatta, quei sette no. Delicato sembra il compito degli inquirenti, la Procura di Bologna ha aperto una indagine, al momento contro ignoti, per disastro e omicidio colposo. Per fortuna è stata ritrovata la ‘scatola nera’; e poi vi sono i sopravvissuti; infine si avverte fin d’ora il bisogno di una perizia, che faccia piena luce sulle cause e sulle modalità dell’incidente.
E’ quello che si è verificato nel febbraio di quest’anno a Firenze, nel cantiere edile preordinato alla costruzione di un centro commerciale della Esselunga per il crollo di una trave in cemento che ha travolto come per un effetto  domino uno o due pavimenti della struttura e ha inghiottito cinque operai che lavoravano accanto o sulle strutture che hanno ceduto. Il grave incidente ha portato alla luce il fenomeno dei subappalti, spesso affidati a terzi senza scrupoli che si servono di operai (in gran parte stranieri: i cosiddetti ‘trasfertisti”) di cui  non si conosce neppure il nome, in modo da identificare da subito le vittime.  Purtroppo l’indagine diretta ad accertare le cause della strage, che all’inizio sembrava molto più semplice, si sta rivelando più difficile del previsto. Perché le strutture sono in gran parte composte da prefabbricati, e si potrebbe ipotizzare un concorso di colpa a carico di chi le ha realizzate; inoltre perché si invoca, in questo come in altri casi, l’errore umano,  e c’è solo da sperare che la colpa non si riversi sui poveri morti.
Ho appena accennato al fenomeno dei subappalti e dei trasfertisti stranieri (nel caso di Firenze marocchini e tunisini) che lavorano (dovrebbero lavorare) in forza di contratto alle dipendenze del subappaltatore. Conviene notare che la società AEP, alla quale è stato appaltato il lavoro di costruzione del Centro, è la stessa alla quale è stata appaltata la costruzione di altri Centri commerciali della Esselunga, sicuramente quello di Genova, inaugurato l’anno scorso, nel quale pure si è verificato qualche incidente per inosservanza delle norme di sicurezza, che per fortuna ha avuto conseguenze assai meno gravi che a Firenze. Ma il problema più grave che emerge dalle indagini relative a questa come ad altre stragi, è quello degli appalti, dei subappalti a catena, distribuiti fra una miriade di piccole imprese (in questo caso 61), che spesso sono la via naturale di accesso al lavoro nero e al contratto più conveniente e meno sicuro (in questo caso il contratto dei metalmeccanici invece che quello degli edili). Tutto questo esige una volontà politica di risolvere alla radice problemi  che non possono essere affidati a dichiarazione di intenti, e richiedono un sistema di controlli più vasti ed efficaci. Per il momento non resta che sperare. Nella attività del governo (ma i primi passi non sono incoraggianti) e nella buona sorte (che eviti il ripetersi di sciagure come quella cui abbiamo assistito).
3. c) L’ultima citazione si fonda su due denunce: una collettiva per la Regione Lombardia (non tutta, comprende però le città di Brescia, Sondrio, Lodi e Cremona) che detiene il triste primato degli infortuni mortali (12 nel primo mese dell’anno) per causa di lavoro; l’altra per l’incidente singolo che ha prodotto la morte di cinque operai investiti da un treno a Brandizzo, in provincia di Torino, mentre lavoravano alla manutenzione dei binari della ferrovia. E’ stata quest’ultima strage, verificatasi nell’agosto dell’anno scorso, a suscitare le reazioni più svariate e a qualsiasi livello. politico, sindacale, giudiziario. Qualcuno ha evocato la strage della Thyssentrupp, verificatasi pure a Torino, con sette morti arsi vivi. Ma questa strage si è consumata sedici anni fa, e, nonostante le reazioni, nessun provvedimento è stato adottato che infrenasse il fenomeno. Il che vuol dire che l’attenzione suscitata dalle reazoni a caldo immediatamente dopo la strage è scemata se non scomparsa del tutto. C’è solo da sperare  che le reazioni a caldo suscitate dalla strage di Brandizzo  non facciano la stessa fine di quelle della   Un fiume di parole, e solo parole. Ho finito.

Michele Di Lieto*

 * Scrittore e Magistrato in pensione

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