Per il prof. Mario Mello, lo Sviluppo possibile, parte soprattutto dalle risorse del territorio

Un incontro per discutere ed analizzare le risorse del territorio, per poi proporre!

Nella riunione di redazione de “il Sud” e Radio Paestum, del 10/11/2018, è stato stabilito che, per dare un contributo alle nostre zone, occorre che tutti facciano qualcosa, attraverso iniziative culturali e progettuali, per stimolare operatori ed amministratori locali ad utilizzare al massimo le risorse del territorio (Sintesi della riunione del 10.11.2018 – http://www.giornaleilsud.com/wp-content/uploads/2019/02/Sintesi-della-riunione-del-10.11.18-5.pdf ).
Partiamo con un articolo del prof. Mario Mello che mette a fuoco la risorsa primaria del nostro territorio: PAESTUM.
Intanto le feste, gli acciacchi di gioventù hanno ritardato il progetto, ma nulla è cambiato rispetto ai propositi. Come pure non influenzeranno più di tanto le “elezioni straordinarie ” di maggio prossimo.
Le potenzialità di Paestum, per Capaccio e l’intero territorio e per il nostro MEZZOGIORNO sono un valore aggiunto, che nessuno può mettere in discussione.
Qui di seguito, troverete l’articolo del prof. Mario Mello, sotto il titolo:
LA PIANA DEL SELE, POSEIDONIA, CAPACCIO PAESTUM.
Per la verità, non è facile parlare dei ritardi e dei limiti, soprattutto della classe dirigente del nostro Meridione, perché i problemi sono tanti e vengono da molto, ma molto lontano.
Per qualcuno sono limiti, per altri problemi che testimoniano per il Sud il “peccato originale”, cioè la nascita dell’Italia. I Padri fondatori, soprattutto quelli di vocazione liberale, pensavano ad un’Italia non solo unita, ma anche ad un Paese forte e coeso con la capacità di valorizzare tutto le sue risorse e di avere un livello pari agli altri Paesi Europei. Tra questi, sicuramente, si può annoverare Camillo Benso Conte di Cavour. Purtroppo, quasi subito, avvenne la sua scomparsa dalla scena politica ( 6 giugno1861), dopo qualche mese dalla proclamazione del Regno d’Italia, con la legge 17 marzo 1861, n. 4761, proposta sempre dallo stesso Cavour, in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri. Quindi, appena tre mesi dopo la sua fondazione, il Regno d’Italia perdeva già uno dei suoi Padri fondatori che aveva in mente un’Italia diversa, almeno si sperava.
A tal proposito, va ricordato che il Mezzogiorno non era fatto solo di straccioni e gente in miseria, ma anche da una buona agricoltura, in particolare, da un sistema agro-pastorale-zootecnico molto fiorente che gli consenti di mettere in moto molte infrastrutture. Tra queste ricordiamo la ferrovia Napoli-Portici e le Manifatture Cotoniere Meridionali, un’industria tessile molto fiorente nell’Agro Nocerino Sarnese , nella Valle dell’Irno, ecc.
Insomma, prima del 1860, le vere industrie d’Italia erano in Campania, Calabria ( le acciaierie di Mongiana occupavano 2.500 operai, l’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone) e Puglia (le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa).
Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento cinico e sistematico del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”.
Solo per citare qualche eccellenza: l’ Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lana e le industrie tessili. La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie dalla provincia di Caltanissetta, all’ epoca una delle città più ricche e industrializzate d’ Italia. In Sicilia c’erano porti commerciali, da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe, specialmente. Importante, infine, era l’ industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.
Nel 1860, il Regno delle Due Sicilie impiegava il 27% del totale degli addetti di tutti gli Stati italiani.
Purtroppo, nell’era post Unità d’Italia, la classe politica e gli amministratori meridionali non sono stati capaci di fare una riflessione sulla potenzialità delle proprie risorse locali, facendosi travolgere dall’assistenzialismo, ad incominciare, ai nostri giorni, dal cattivo utilizzo delle risorse europee che andavano spese per realizzare infrastrutture, per potenziare e valorizzare proprio le risorse locali ed ambientali e non per fare marciapiedi, illuminazione o concerti in piazza, ecc… Si, tutto questo è utile realizzare, ma con risorse ordinarie e non con risorse straordinarie, con il pericolo delle negazione del finanziamento.
La definizione di progetti sostanziali ed infrastrutturali avrebbero significato il consumo totale delle risorse messe a disposizione dall’Europa. La spesa totale delle risorse europee, con l’aggiunta dei cofinanziamenti, avrebbero dato il via a progetti concreti e finalizzati allo sviluppo ed all’occupazione sul territorio che oggi rappresenta il tallone d’Achille del Paese. Il fatto stesso che la programmazione di spesa di questi anni si sia attestata intorno a circa il 15% e, con tanti progetti anche bocciati dall’Unione europea, significa la bocciatura di tutti i governi locali e centrali.
Adesso cosa fare?
Non è facile, ma la via maestra è sempre la stessa e cioè che la mano destra deve sapere che cosa fa la sinistra, al contrario del passato, per cui gli Enti locali, ed in particolare i COMUNI, devono fotografare la realtà e progettare in economia, senza sprechi, ma occorre avere anche riferimenti certi, con risposte tempestive sia dagli Enti superiori che dallo Stato centrale, in modo che qualsiasi parte dell’organizzazione istituzionale ( Regione, Provincia, forze dell’Ordine, apparato giudiziario, ecc.) debba dare delle risposte certe, ma soprattutto tempestive.
Chi può essere il riferimento di tutto questo?
Le ex Prefetture sono state trasformate in UTG ( Ufficio Territoriale del Governo) questo per essere un riferimento dell’intero Governo e non solo del ministero dell’Interno, ma cosa è cambiato dopo la riforma? Niente!
Infatti, sotto certi aspetti, continua ad essere la struttura di un tempo e cioè Uffici travolti dalla burocrazia, nonostante siamo nell’era del web e della digitalizzazione.
Eppure, se si visita qualche sito di ex prefetture, spesso, si trova letteralmente scritto:
<< Che cos’è la Prefettura – U.T.G. http://www.prefettura.it/lucca/contenuti/Che_cos_e_la_prefettura_u.t.g.-49089.htm …. In ambito provinciale, gli Uffici svolgono un’azione propulsiva, di indirizzo, di mediazione e di intervento, di consulenza e di collaborazione, anche rispetto agli Enti locali, in tutti i campi del “fare amministrazione”, in esecuzione di norme o al di fuori di procedure codificate, promuovendo il processo di semplificazione delle stesse procedure amministrative. I prefetti, titolari delle Prefetture – U.T.G., sono coadiuvati nelle nuove complesse funzioni da una Conferenza permanente, presieduta dai medesimi e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato…..>>.
Quindi, se ogni Prefetto desse disposizione di un rapporto quotidiano con i Comuni della sua Provincia e desse ascolto anche ai cittadini, i territori risorgerebbero, perché dove si annidasse una burocrazia oscura, ottusa e per certi aspetta maligna ci sarebbe come controparte non il singolo cittadino, ma lo Stato.
E’ utopia, forse, ma continuare ad essere considerati dai cittadini solo dei passacarte e degli inutili uffici dello Stato è davvero molto peggiore per chi lavora, senza risultati concreti. (Nicola Nigro).

LA PIANA DEL SELE, POSEIDONIA,

CAPACCIO PAESTUM

  di Mario Mello

Il prof. Mario Mello

La piana del Sele è un meraviglioso dono della natura. L’hanno formata, nel corso dei millenni, i diversi fiumi che sboccano nel golfo di Salerno, accumulando, intorno alla loro foce sulla spiaggia bassa e regolare compresa fra Battipaglia e Agropoli, i detriti strappati nelle piene alle colline dell’interno e trasportati a valle.
L’apporto principale è stato evidentemente dato dal Sele, che la connota e signoreggia, dandole il proprio nome e tagliandola a metà con l’ultimo tratto del suo corso, ormai arricchito dalla confluenza del Tanagro e del Calore. Un tempo, tuttavia, giungeva al mare con una portata notevolmente maggiore, soprattutto perché lo stesso Sele non aveva ancora ceduto all’arida Puglia, già alle sorgenti, buona parte delle sue acque.
Era naturale che una così ampia distesa di terre fertili, aperta agli scambi delle merci e ai contatti fra le genti, lungo le vie costiere e quelle marine, suscitasse l’interesse sia degli abitanti dell’entroterra montuoso, sia di popoli esterni. Di fatto, già intorno al 600 a.C., Sibari fondò nella parte a sinistra del Sele una sua subcolonia, Poseidonia (poi Paestum), per averne l’appoggio nell’espansione dei suoi commerci nel Tirreno; mentre gli Etruschi estesero la loro influenza fin sulla riva destra del fiume.
Non era facile proteggere dalla connaturata, pericolosa sovrabbondanza di acque un’area tanto vasta: il mare penetrava oltre le dune, impantanandosi alle loro spalle; le piene dei fiumi erano un pericolo sempre incombente, che imponeva la sorveglianza e la cura degli argini; e costante attenzione richiedevano anche le molte sorgenti.
Poseidonia, sulla quale siamo meglio informati, non solo riuscì a dominare le difficoltà e a mantenere sano e fecondo il territorio di pianura, ma provvide anche ad ancorarlo saldamente ai circostanti elementi di importanza strategica, come il promontorio di Agropoli, i vicini colli cilentani, l’altura di Caputaquis, la via di penetrazione che raggiunge il Vallo di Diano, la foce del Sele, suo confine Nord, che munì di un porto e affidò alla protezione di Hera nel santuario che, presto, divenne famoso in tutto il Mediterraneo.
L’importanza della città greca non si spiegherebbe senza il pieno dominio del suo ambiente. Nei secoli che precedettero la fondazione, il Capodifiume, non costretto entro un alveo imposto, si era diffuso in paludi e aveva creato spessi strati di depositi calcarei. Poseidonia vinse le paludi, utilizzò come cave i vecchi strati tufacei ricavandone blocchi e colonne per le mura e i templi, e trasformò in una formidabile risorsa le già malefiche acque del fiume che la toccava, piegandole a difesa delle mura e a muovere le macine di molti molini.
Paludi e malaria ricomparvero solo con le crisi della città (nel periodo postannibalico e poi dal Tardoantico), determinate dal cedimento del quadro economico e sociale. Paludi e malaria, difatti, non sono la causa prima, ma la conseguenza, delle crisi. Solo quando queste sono già in atto, il degrado ambientale derivatone le aggrava, diventando concausa.
M’è parso utile richiamare i tratti essenziali del virtuoso rapporto tenuto da Poseidonia con la sua chora, perché esso può ancora illuminare i cittadini d’oggi.
Poseidonia fu una polis, cioè una città-stato. Poteva (e doveva) decidere ed eseguire in autonomia e con immediatezza. Oggi, come ogni comune, Capaccio Paestum, prima di decidere, deve tener conto delle leggi dello Stato, della Regione, degli Enti a vario titolo preposti, e deve superare le strettoie della burocrazia.
Ma, soprattutto, è frenata dalla rivalità fra le varie contrade, in particolare quella fra il centro collinare, un tempo preminente, più legato alla tradizione, e la piana, vasta, rampante, variegata e disinvolta. O gli abitanti faranno prevalere il principio del bene collettivo e il senso della solidale, comune appartenenza, o saranno destinati a soccombere, malgrado i vantaggi offerti dal territorio.
Poseidonia fu l’unica città nell’intera piana. Della parte meridionale che le appartenne, segnata dal Capodifiume, occupò il cuore. Attualmente, la piana è priva d’una sua città, d’un centro che ne rappresenti la sintesi. Non possono definirsi tali né Battipaglia né Eboli, né Agropoli, importanti e ricche di meriti, ma decentrate.
Per lo sviluppo che ha raggiunto e promette, per gli interessi che coagula, soprattutto per la vicinanza materiale e culturale all’incomparabile complesso monumentale di Paestum, da secoli meta ambita del turismo nazionale ed estero, potrebbe diventarlo Capaccio Scalo: alla condizione preliminare, però, che abbandoni questo insignificante nome d’accatto e ne prenda uno che rispetti la realtà d’un borgo ormai robusto e il ruolo cui questo mira. Un nome confacente potrebbe essere Nuova Paestum.
Di pari passo, l’Amministrazione Comunale dovrebbe insistere con forza, perché la stazione ferroviaria locale al più presto venga ristrutturata, ampliata e adeguata (con fermate di treni delle grandi linee) ai bisogni d’un’area ricca di prodotti tipici, da spedire celermente, e di visitatori provenienti da terre lontane, ai quali è importante facilitare l’arrivo e la ripartenza. La stazione attuale, a cominciare dalle modalità d’accesso, è risibile. La minuscola, vicina stazione di Paestum, cui non è consentito crescere, adatta solo al traffico locale, è sostanzialmente inutile, più un peso che un vantaggio.
Altra esigenza irrinunciabile, per un comune immerso nella memorie del passato greco, romano, medievale, è che al già esistente Liceo Scientifico venga annesso un Liceo Classico.
I Poseidoniati vennero dal mare, e sul mare costruirono le loro fortune. Avevano navi da guerra e da carico, un porto davanti alle mura, uno al Sele, forse un altro sotto l’odierna Agropoli. Navigavano e commerciavano su tutto il Mediterraneo. La Porta di mare costituiva l’accesso più importante alla città, il cui asse principale era appunto quello Est-Ovest.
Capaccio Paestum è ancora priva di tradizioni marinare. Per chi vi abita, mare significa solo spiaggia, rena, balneazione. Da Paestum, il mare neanche si vede più. E’ nascosto dalla pineta costiera: così, però, viene smarrito proprio il carattere fondamentale d’ogni colonia italiota, il legame che la stringeva al mare in un’unità vitale.
Certo, la pineta è un bene, un polmone prezioso, ed è bella. Non si può pensare di cancellarla. Ma qualcosa si deve fare, perché resti viva almeno la cognizione della fisionomia storica del sito. Per adesso, in attesa che maturi una vera e completa cultura marinara, si può proporre e raccomandare un itinerario di visita che parta dalla spiaggia e salga alla città, attraverso Porta Marina: un itinerario, cioè, che rispecchi quello di chi, diretto a Paestum, nell’antichità prendeva terra davanti alle mura.
Rimanendo sulla costa, l’altro cardine, già richiamato, della vita di Poseidonia fu il Sele, in specie il tratto fra l’Heraion e la foce. In epoca romana, verisimilmente, lì venivano imbarcate le rose, che in grande quantità giungevano ancora fresche sul mercato della capitale. Oggi il Sele, se non straripa e non danneggia abitazioni, stalle e colture, poco interessa. Viene colpevolmente trascurato, sia sotto l’aspetto storico-culturale, che sotto quello turistico. La confluenza col Calore e il Tanagro e la lussureggiante vegetazione lungo le sponde già offrono uno spettacolo indimenticabile. La vicina presenza, poi, delle rovine del santuario che ha restituito le metope, per le quali nacque il Museo di Paestum arricchisce l’ambiente di una forza evocatrice che lo eleva a luogo dello spirito.
In tema di valorizzazione e fruizione del patrimonio storico e archeologico, ripropongo qui il suggerimento che già in passato presentai in un volume, corredato dei grafici dell’architetto Diego Granese: di tenere sul Sele, sempre pronto all’uso, un battello, lento e silenzioso, atto ad accogliere a bordo gruppi di visitatori, accompagnati da una guida, per condurli lungo la via d’acqua, come avveniva nell’antichità, fino all’area sacra, dominata e protetta da Hera.
Altre acque determinanti nella storia dei luoghi, dalla fondazione di Poseidonia al secolo scorso, sono state quelle del piccolo fiume (il potamòs di Strabone), che tocca la cinta muraria, scendendo rapidamente dalle sorgenti ai piedi del vicino colle di Caputaquis. Il Salso (o Capodifiume), come oggi si chiama l’anonimo potamòs, costituì sempre l’asse d’unione tra la città antica, le sorgenti e l’altura (Caputaquis), la quale, di questa città, fu osservatorio e roccaforte, prima di divenire nuovo centro dominante del territorio, al posto della decaduta Paestum.
Risalire a piedi un tale asse, fino allo specchio d’acqua “delle Trabe”, seguendo un sentiero tracciato alla brava lungo la sponda destra del fiume, guadagnare poi la sommità del colle che ancora ospita i ruderi delle fortificazioni medievali distrutte da Federico II, e che certo prima contenne quelle classiche, sarebbe come ripercorrere a ritroso il succedersi dei secoli, significherebbe riappropriarsi dell’essenza di una storia di cui continuiamo a far parte.
Venendo all’area interna alle mura, mi meraviglia sempre molto il degrado, che fa quasi pensare ad un inconscio (o deliberato?) abbandono, di una delle più belle, nobili e intatte arterie dell’antica colonia, la via di Porta Sirena, che, mal ricoperta d’asfalto, ricalca il tratto del decumanus maximus, che, da quella Porta orientale scendeva verso il Foro, per raggiungere Porta Marina a Ovest.
Eppure, questa via era stata valorizzata in pieno in epoca fascista, quando fu ampliata e alberata, per offrirla alla vista e all’uso dei visitatori arrivati coi treni speciali nella giovane stazione, per assistere agli spettacoli che, negli anni tra il 1932 e il 1938, venivano organizzati in grande, impegnando artisti d’alto prestigio. Oggi, è una via praticamente dismessa, dal fondo gravemente ammalorato, bordata da piante selvatiche, priva di illuminazione, poco frequentata, sconsigliabile di notte.
Illuminata convenientemente, pulita, col manto rifatto, corredata di aiuole e sedili, splenderebbe. Tra l’integro arco della Porta, incastonato nell’alta muraglia, e lo sbocco sul Foro, dominato dalla mole dei due templi maggiori, diverrebbe un richiamo di pregio, solenne. Chiuso, com’è, al traffico, sarebbe il viale della passeggiata distesa, della conversazione serena, del mercato d’arte.

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